Affinità laiciste

La drammatica morte di Lucio Magri ha offerto l'occasione per commenti, discussioni, confronti ideologici a non finire. È comprensibile, Magri è stato figura di rilievo nel panorama di una politica fatta da persone assai spesso di spicco, comunque dedicate e impegnate in un lavoro sentito come passione e persino dovere, ancor prima che socialmente utile: una politica, insomma, diversa e lontana - nel meglio e nel peggio - da quella che lamentosamente viviamo oggi. In quel panorama, Lucio Magri svolse un ruolo ricco, capace di offrire alle classi dirigenti, ma anche al paese, contributi discutibili ma di indubbio fascino.
Naturalmente, nel dibattito successivo alla sua scomparsa è entrato di tutto: il dolore sincero e commosso, il giudizio inevitabilmente acido di quanti si schierano tra i contrari a ogni percorso eutanasico, l'invocazione a una pietas irenica e scontata, pratica che non si nega a nessuno, nemmeno al gatto o al cane di casa quando, anche loro, ci lasciano. Come suo contemporaneo - non ho altri titoli - e sicuramente lontanissimo dalle sue convinzioni e posizioni vorrei qui poter dire anche io qualcosa, quel che mi si è affacciato alla mente alla notizia della sua morte.
Io sentivo Magri vicino a me in questa concezione della politica come impegno ideale e personale: lui e quanti con lui collaborarono in momenti salienti, come per la nascita e gestione del manifesto, furono del resto non banalmente interlocutori di noi Radicali pannelliani, che a volte li incontrammo ma più spesso ci dividemmo intorno a scelte non di poco conto: ricordo benissimo quel pomeriggio del 1974 quando, sul palco eretto a piazza Navona per festeggiare la vittoria referendaria sul divorzio, io gridai a un esponente, appunto, del manifesto, che gioiva accanto a me: "E adesso l'aborto".
Quello fece un salto di fianco, guardandomi severamente: la messa al bando della pratica clandestina (e di classe) non era tra i suoi obiettivi.
Non fu però questo il punto culminante del dissenso tra i nostri due fronti. Il dissenso riguardava i fondamenti stessi, la concezione della politica. Non voglio fare qui l'esegesi delle posizioni dei compagni di Magri, solo cogliere qualche spunto significativo. Per dire: è vero che in alcune occasioni il gruppo abbracciò tesi che oggettivamente apparivano liberali se non addirittura libertarie, ma si trattava di contraddizioni che si insinuavano in un tessuto ideale del tutto opposto. Quei dissidenti dal Pci berlingueriano volevano rifondare una sinistra che fosse ancor più legata e coerente con ideali del tutto illiberali, propri di un comunismo utopico e dogmatico, per nulla laico.
Il manifesto fu in questo del tutto diverso da Lotta continua, dove le spinte libertarie erano vivaci e sincere, vorrei dire spontanee anche sul piano antropologico: Gasparazzo, l'operaio incazzato che appariva nelle vignette del giornale del movimento di Sofri (giornale diretto per un certo periodo anche da Marco Pannella) era un libertario, stava dalla parte dei non garantiti, aveva cattivi rapporti con il sindacato e preferiva risolvere i problemi di classe con la lotta personale; del tutto diverso e alternativo al Cipputi, l'operaio sindacalizzato disegnato da Tullio Altan e amato dalla sinistra ufficiale. Magari non era un nonviolento, ma insomma a noi Radicali Gasparazzo era simpatico. Non è affatto un caso che con il movimento di Sofri avemmo punti in comune, persino di collaborazione, sia pure alla lontana: e non parliamo poi delle simpatie personali.
I borghesi dissidenti dal Pci
Per quel che mi riguarda provai sempre una certa curiosità per gli eretici del manifesto, figure anomale rispetto ai loro compagni del Pci. Lí sentivo borghesi, con radici giacobine, laicisti ma non laici nella concezione che più o meno tutti loro, compreso Magri, avevano della ragione. Loro vedevano la ragione (che poi finiva con l'essere la loro ragione) come la governatrice della storia. Per noi Radicali questa visione era assai pericolosa, oltreché fallace: soprattutto, non era laica.
La ragione giacobina ha bisogno del potere; Magri e i suoi furono teorici di un potere che non avevano. Totalitari comunque, anche se forse nei loro cuori, nelle loro intelligenze, si poteva intravedere qualcosa del Camus libertario, del suo "homme révolté", l'uomo in rivolta. Ma tra quel fascinoso Camus e (Dio mi perdoni la presunzione) Dostoevskij, io e i miei compagni Radicali avevamo scelto, senza nemmeno pensarci, il secondo e la "condizione umana" da lui esplorata: avevamo scelto di frequentare le abortiste violentate dal prezzemolo e dai "cucchiai d'oro", le prostitute e i trans, i fuori legge non solo del matrimonio, i "fumati" per disperazione, i lavoratori senza protezione (né sindacati), insomma i "dannati della terra", tanto per riesumare il vocabolario di quei tempi lontani, E sempre, ieri come oggi, le carceri.
Però penso che sull'infido terreno camusiano, a volte, Magri e quelli del manifesto si incontravano anche con noi Radicali (come dire, la borghesia ha - o aveva - tante facce...). Sul quel terreno, ahimè, temo che oggi crescano solo le erbacce.
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