30 anni dal Referendum

Sul Corriere del 3 maggio Paolo Mieli recensisce il libro di Andrea Possieri sul cambiamento di senso comune sui temi bioetici (il suo saggio è nel libro, curato da Lucetta Scaraffia, Bioetica come storia. Come cambia il modo di affrontare le questioni bioetiche nel tempo, Lindau). Finalmente viene aperto un dibattito che negli anni 70 vide contrapposti i Radicali alla rivista Noi Donne, espressione dell'Udi, vicina al Pci.
Nella recensione si legge: «In realtà qualcosa aveva già cominciato a muoversi tra il 1967 - all'epoca della commercializzazione della pillola anticoncezionale di Pincus - e il 1968, anno della rivolta nonché dell'enciclica di Paolo VI Humanae Vitae, che condannava ogni forma di controllo delle nascite». Noi Donne - fin lì incentrata su rivendicazioni emancipazioniste cominciò ad occuparsi di «maternità consapevole»: fecondazione in provetta e altro. Allora un deputato socialista, Gianni Usvardi, iniziò una battaglia per cancellare il divieto di propaganda per il controllo delle nascite. Affiancato dall'associazione per l'educazione demografica di Luigi De Marchi. E soprattutto dal Partito radicale. Nel marzo del '71 la Consulta stabilì l'incostituzionalità dell'articolo 553 del codice penale, che vietava la propaganda e l'uso di contraccettivi. Quella sentenza determinò una svolta.
Continua Mieli: «Nell'80, quando ormai si capisce che il referendum sull'aborto non può più essere evitato». Donne e Politica pubblica un dossier, con un duro editoriale della Seroni contro «radicali e clericali», contro Marco Pannella e Carlo Casini, accusati di aver voluto il referendum con «argomentazioni assai diverse» ma con un obiettivo comune: «la distruzione o il profondo snaturamento della legge sull'aborto». Noi Donne, invece, porta in primo piano i temi bioetici. Al referendum dell'81, come era già accaduto nel '74 per il divorzio, il fronte laico vince. Noi Donne esulta. Solo nell'82 allorché a Parigi il prof. Etienne-Emile Baulieu, allievo di Pincus, presenta la pillola Ru486 che «sostituendosi al progesterone» impedisce che l'ovulo fecondato si impianti nell'utero, solo in quel momento, il periodico dell'Udi solleva dubbi. Di ordine etico, perché così «l'aborto sarebbe interamente gestito dalla donna, senza ospedalizzazione, senza traumi fisici, senza interferenze mediche, senza giudizi di chicchessia», quindi si sarebbe potuto correre il rischio di tornare all'aborto «privato» e di «perdere quanto dolorosamente e faticosamente» le donne avevano conquistato.
Mi fermo qui. Per dire che a distanza di 30 anni, se fosse passata la proposta radicale, non solo l'aborto sarebbe un atto medico-chirurgico, ottenibile in regime di assistenza pubblica o privata, ma si sarebbe sganciata dai lacci e lacciuoli da una sanità pubblica che, quando incapace di far fronte alle richieste dei cittadini si limita a dire al paziente "si arrangi". Cioè: "trovati un altro posto". Che non c'è. Per esempio per la donna immigrata che non ha accesso a strutture alternative e che dovrà aspettare un intervento a gravidanza avanzata, in barba a tutte le raccomandazioni che indicano come meno pericoloso l'intervento precoce. Riguardo alla pillola abortiva, salutata da Noi Donne con «dubbi etici», ecco che, dopo 30 anni, come medici in Italia, ci sentiamo "handicappati" rispetto a altri paesi. Per l'impossibilità di usare il metodo farmacologico in alternativa a quello chirurgico nonostante l'approvazione del farmaco in Italia dal 2009 e le raccomandazioni di agenzie internazionali quali l'Oms. I protocolli regionali (vedi il Lazio) prevedono condizioni che rendono di fatto impraticabile la procedura, dacché presuppongono posti letto "dedicati" quando la Regione taglia i posti letto. La vittoria del referendum radicale avrebbe significato non solo l'equiparazione dell'aborto a un atto medico, ma il suo inserimento anche nella medicina privata, rendendo vano l'insostenibile obiezione di coscienza, giunta ormai, secondo il Ministero della Salute, al 70%.
L'dea che la donna si sarebbe sentita "più protetta" dall'ombrello statale si è rivelata infondata e giustifica le cifre insostenibili di un paese, che seppure con un tasso di abortività in costante declino (con buona pace di chi diceva che la legalizzazione dell'aborto lo avrebbe incentivato), ha ancora un alto tasso di aborti chirurgici in fasi avanzate. Peccato che Noi Donne non prosegua il dibattito. E le "altre" donne?
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