Questa mattina, al Tribunale di Roma, si è svolta la quinta udienza del processo intentato per diffamazione dall’avvocato Giovanni Di Stefano nei confronti dell’esponente radicale Giulio Manfredi (autore del libro “Telekom Serbia – Presidente Ciampi, nulla da dichiarare? – Diario ragionato del caso, dal 1994 al 2003”, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, 2003).
L’udienza doveva essere dedicata all’interrogatorio dei testi dell’accusa, in particolare dello stesso Giovanni Di Stefano e di un certo Mihai Romanovic. Di Stefano non si è presentato (aveva ricevuto regolare notifica il 3 agosto scorso) senza presentare alcuna giustificazione; per tale assenza ingiustificata, il giudice gli ha inflitto una multa di 200 euro che confluirà nella Cassa delle Ammende.
Rispetto, invece, al Romanovic, il PM ha comunicato che la polizia giudiziaria non è riuscita a rintracciarlo; al che l’avvocato difensore di Manfredi, Giuseppe Rossodivita, ha fatto presente che vi era stato un errore di trascrizione; il nome giusto è Romanciuc Mihai, webmaster del Partito Radicale transnazionale, a disposizione degli inquirenti … se regolarmente citato!
Al termine dell’udienza, Manfredi ha dichiarato:
Sono stato sempre presente a tutte le udienze del processo (iniziato nel 2005 a Campobasso e poi trasferito a Roma), sobbarcandomi le spese di viaggio e sacrificando giorni di ferie; l’ho fatto per rispetto sia alla giustizia italiana sia al mio accusatore. Rilevo che il signor Di Stefano non nutre lo stesso rispetto; l’unica nota positiva della giornata sono i 200 euro che andranno a rimpinguare la Cassa delle Ammende (già peraltro ricca di suo, 180 milioni di euro), con la speranza che tali fondi siano utilizzati, come prevede la legge, per il reinserimento dei detenuti e non, come è nelle intenzioni del governo, per costruire nuove carceri.
Per il resto, io attendo ancora di sapere quali sono i capi di imputazione.
Non credo che configuri il reato di diffamazione l’aver inserito nel mio libro anche uno stralcio de “Falcone Borsellino Mistero di Stato” di Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo (Edizioni della Battaglia, Palermo), in cui sono citate dichiarazioni rilasciate ai PM palermitani dal pentito calabrese Pasquale Nucera su un un summit delle mafie meridionali tenutosi il 28 settembre 1991 al santuario di Polsi, in Calabria; a tale summit, secondo il Nucera, che era presente, partecipo’ anche il signor Giovanni Di Stefano. Oggetto del summit: la costituzione di un movimento politico di “cosa nostra” definito “partito degli amici”. Testualmente:
“Nel corso della stessa riunione, secondo il racconto di Nucera, il boss calabrese Francesco Nirta avrebbe poi spiegato che si trattava di conquistare il potere politico, abbandonando i vecchi politici collusi che non garantivano più gli interessi mafiosi, e facendo ricorso ad uomini nuovi per formare un partito che fosse espressione diretta della criminalità mafiosa da portare al successo elettorale attraverso una campagna terroristica. Tale “campagna” si sarebbe realizzata in due fasi: nella prima sarebbero stati eliminati alcuni esponenti dello Stato molto importanti perché impedivano alla mafia di incrementare il proprio potere; nella seconda si sarebbe passato a destabilizzare, mediante la strategia del terrore, “il vecchio potere esistente”, allo scopo di raggiungere il fine politico prefissato … (“Richiesta di archiviazione del proc. Pen. N. 2566/98 R.G.N.R. nei confronti di Gelli Licio + 13), pag. 64).
Considerate le polemiche di questi giorni sull’esistenza o meno di una “trattativa” fra istituzioni dello Stato e mafia siciliana, nei primi anni ’90, volta ad impedire il compimento da parte della seconda di omicidi, stragi e attentati terroristici, non mi pare inutile recuperare quanto scritto dieci anni fa dai PM palermitani.
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