Violenza o resistenza aggressiva nonviolenta? – parte seconda -

di Phillips P. Moulton (da “Notizie Radicali” del 24-09-2010) 

Il saggio che segue è tratto da un opuscolo pubblicato anni fa negli Stati Uniti. L’autore, Phillips P.Moulton, è stato professore di filosofia all’Adrian College, ed ha lavorato specialmente in corsi interdisciplinari, tenendo seminari su “L’integrazione della Conoscenza”. Su “N.R.” di giovedì 23 settembre abbiamo pubblicato la prima parte. Oggi la seconda.

Violenza acquisita, non innata. Alcune forme di rimozione

Prima di addentrarci nell’esplorazione di possibili alternative, dobbiamo chiederci se la violenza sia o meno una componente della natura umana.

L’evidenza indica, come ragionevolmente vera, l’ipotesi secondo la quale l’inclinazione dell’uomo alla violenza è acquisita più che istintiva od innata. 

Nel 1902, Pietro Kropotkin pubblicò l’opera pionieristica sulla simbiosi: “Il mutuo appoggio: un fattore dell’evoluzione”, votata a correggere l’unilaterale enfasi darwiniana sugli aspetti predatori dell’esistenza. Negli anni ’50, Piritim Sorokin, del “Centro Ricerche di Harvard sull’Altruismo Creativo”, ne “Le vie ed il potere dell’Amore”, e in altri volumi, sottolineò il significato della simpatia e della cooperazione nell’evoluzione dell’uomo. 

Più di recente, l’antropologo M.F. Ashley Montagu ha compilato numerosi volumi, nei quali giunge ad analoghe conclusioni. Nel 1968 egli pubblicò “Man and Agression”, contenente saggi di quattordici esperti, i quali criticano aspramente la metodologia di Ardrey e Lorenz, e la loro opinione che l’uomo sia, in modo preminente un animale violento per tendenze innate. Numerose ricerche attestano che i Primati pre-umani erano fondamentalmente amabili e che almeno alcune società umane hanno valorizzato la gentilezza e la pace, più che la forza e la violenza. Una schiacciante evidenza, secondo Montagu (pagg.12, 15-16, 34-35, 49, 61), indica l’importanza delle attività nonviolente e cooperative nella vita dell’uomo primitivo, le “potenzialità sociali” di quest’ultimo, la sua capacità di un comportamento costruttivo. 

La violenza non è istintiva, ma emerge durante il processo di socializzazione ed è pertanto, in larga parte, un attributo culturale. Quando una società onora i portatori di violenza, nelle successive generazioni si trasmette e circola tale inclinazione. Quando invece l’azione ostile non è gratificata, come accade presso gli indiani Zuni e Hopi, essa si rileva a mala pena. 

Negli ultimi decenni in America la gente ha “imparato” ad essere più violenta. Ma possiamo invertire questo orientamento, con l’ausilio di una autentica controcultura. Per fare ciò, disponiamo di due metodi principali, che non si escludono a vicenda. Il primo consiste nel ridurre i conflitti rimuovendone le cause sociali, per la massima estensione possibile. Si tratta di un rimedio ovvio, e, tuttavia, non è stato adeguatamente applicato, per quanto la sua urgenza fosse sottolineata nel “Report of The National Advisory Commission on Civil Disorders” (comunemente detto “Rapporto Kerner”). 

Per quanto riguarda il secondo metodo, esso consiste nel trattare i rimanenti conflitti per mezzo di tecniche nonviolento. Nel libro “On Agression” Konrad Lorenz auspica che “l’entusiasmo militante della gioventù” sia convogliato verso “cause” di reale valore nel mondo contemporaneo. In precedenza, nel nostro secolo, lo psicologo William James, nel famoso saggio “The Moral Equivalent of War” accettava come positive le “virtù marziali”, ma affermava che esse potrebbero svilupparsi ed impiegarsi in progetti costruttivi. Questi autori, dunque, fanno riferimento ad una importante ipotesi nonviolenta: la de-direzione delle tendenze aggressive.

La prima alternativa alla violenza

L’uomo possiede risorse adeguate a ridurre drasticamente le frustrazioni che generano violenza. Ovviamente, i programmi costruttivi di alternativa socio-culturale non elimineranno ogni tensione e frustrazione; occorre, pertanto, escogitare ed impiegare metodi nonviolenti idonei a dirimere i conflitti che inevitabilmente nascono. 

Un approccio nonviolento di grande efficacia fu quello di John Woolman, esponente quacchero nell’America coloniale. Egli è ricordato per l’intensa opera volta a sensibilizzare i correligionari sui mali dello schiavismo. Il suo metodo era basato in primo luogo sulla persuasione “faccia a faccia”; nel carattere di Woolman erano talmente infusi amore e umiltà, che egli destava ben poco risentimento ogni qual volta presentava il proprio messaggio. In ogni epoca e situazione, coloro che si oppongono al male possono trarre una considerevole facoltà di discernimento della comprensione della personalità di John Woolman, così com’è riflessa nel suo “Journal”. Qualsiasi altro metodo nonviolento si possa impiegare, l’esercitare la sorta di influenza che Woolman esercitò attraverso la forza del carattere e della persuasione, rafforzerebbe enormemente l’impatto totale contro le barriere del male. 

Tuttavia, i soli metodi woolmaniani sarebbero insufficienti, nel ben più complesso mondo del tardo ‘900.

Resistenza aggressiva nonviolenta

E’ applicabile oggi, una autentica alternativa, che non è stata considerata a sufficienza: la resistenza aggressiva nonviolenta altrimenti detta “azione diretta nonviolenta”. 

I critici della nonviolenza hanno sovente un’idea inadeguata delle sue possibili implicazioni. Molti, ad esempio, si riferiscono ad essa come ad un insieme di tecniche il cui impiego “è visto di buon occhio” dagli oppressori, essendo troppo innocuo per minacciare lo status quo. Per altri, il termine nonviolenza denota unicamente non-resistenza, passività, nei confronti del male. 

La resistenza aggressiva nonviolenta di cui parliamo è del tutto differente. Nel rigettare la violenza essa è, appunto, aggressiva più che passiva, e comporta resistenza più che sottomissione.  

Martin Luther King definiva questo progetto come “una sintesi superiore”; infatti esso incorpora gli elementi più validi della persuasione da un lato, e della rivolta dall’altro, mentre manca degli aspetti carenti della prima, e di quelli violenti, immorali, non risolutori, della seconda. 

L’azione nonviolenta necessita di progettazione e di organizzazione disciplinate ed accurate. Numerose le tecniche a disposizione: dalla persuasione razionale, a proteste, dimostrazioni, scioperi, boicottaggi, sit-in, culminando nella disobbedienza civile di massa. L’obiettivo è quello di esercitare una notevole pressione – che M.L.King definiva “potere coercitivo costruttivo”. 

Naturalmente la linea di demarcazione tra l’azione nonviolenta e quella violenta non può essere sempre tracciata in modo netto. I critici potrebbero obiettare che il “potere coercitivo costruttivo” di King si distingue a fatica dalle forme più edulcorate della violenza. Si può cavillare a non finire, ed immaginare situazioni ipotetiche nelle quali l’attivista nonviolento potrebbe difficilmente essere coerente al 100 per cento. Tutto ciò è ammissibile: nel nostro complicato mondo, di rado si può operare su “posizioni assolute”. Eppure, vi è una differenza qualitativa, di fondo, tra l’approccio di M.L.King al problema della violenza, e quello, ad esempio, di Franz Fanon: nei momenti delle scelte e delle decisioni, la distinzione può essere marcata.

2) Fine seconda parte.

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Fonte: http://www.perlagrandenapoli.org/?p=2383

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