Salviamo Napoli dal mito post moderno

di Sebastiano Maffettone da “il Corriere della Sera” del 12-12-2010

«Trash!», che vuol dire spazzatura. Meglio ancora «monnezza», dato che si parla di Napoli. No, non si tratta della recente epopea dei rifiuti, cui si è rivolta la benemerita attenzione del Corriere in queste settimane. La parola fu pronunciata, invece, da Andy Warhol più di trent’anni fa. Vivevamo quella fantastica stagione estetica napoletana, di cui fu artefice primo Lucio Amelio e che trova ancora oggi nel Museo Madre la sua eco. Amelio, fra le altre cose, riuscì verso la fine degli anni Settanta a trasferire a Napoli per qualche mese quei due artisti straordinari, che erano Joseph Beuys e il sopra-menzionato Warhol.

L’operazione culturale, come si diceva allora, aveva un che di magico, dato che i due artisti non si conoscevano ed erano tra loro diversissimi. Amelio li collocò uno vicino all’altro, ed era come mettere un cane e un gatto nella stessa gabbia. Beuys e Warhol si annusarono, si piacquero, si compresero, e per un po’ di tempo convissero artisticamente. L’incanto di Napoli fece da collante. In quei giorni felici Warhol diceva spesso che uno di New York come lui poteva vivere solo in una città come Napoli. Io, che ero un giovane membro del coro che circondava le due prime donne — conoscendo New York, e ovviamente Napoli — un giorno trovai il coraggio di chiedere al Maestro: «Perché?». E fu allora che lui se ne uscì col suo diosaquanto profetico «trash!».
Questa spazzatura di oggi non è però solo il risultato di politiche dissennate. È anche frutto di una cultura. Una cultura che non ha mai digerito a pieno il moderno, e le sue pratiche virtuose. In quella «capitale di un regno senza strade e senza città» — come chiamò Napoli Giustino Fortunato — l’incapacità di processare i rifiuti non è l’unico problema. Napoli non è riuscita a gestire le sue acciaierie e l’industria conserviera, è stata stuprata dai costruttori negli anni del miracolo economico, ed è quotidianamente violata dalla camorra. E chi lavora sa quanto sia difficile operare sul territorio giorno per giorno nei limiti della legalità. Tutto ciò dipende di certo dalla congiunzione di una classe dirigente che fa schifo e di un popolo che la sopporta e spesso ahimè la supporter Ma ha anche precise responsabilità culturali. Prima tra tutte, quel compiacimento — che potrebbe andare bene solo per un turista giornaliero — tipico della locale intellighenzia. Questa intellighenzia spesso se la gode nel pensare che Napoli sia magicamente transitata dal pre-modemo al post-moderno in cui si incarna. Credono questi intellettuali da strapazzo che Napoli possa superare le complessità del moderno attraverso un’autarchia culturale che evita la competizione e il confronto. La Capria e Turturro, con stili differenti, hanno entrambi scritto che dobbiamo qualcosa a Napoli. Aggiungo che forse la prima cosa che dobbiamo — almeno come intellettuali — consiste nel sbaraccare questo mito reazionario, secondo cui Napoli avrebbe «superato» il moderno. E, invece no, perché i problemi si affrontano e non si bypassano. Mentre Napoli dolorosamente esibisce i suoi escrementi, il resto del Paese la guarda perplesso. Come se si parlasse d’altro. Così non è, invece. Tutta quella monnezza è in verità una metafora dolorosa. Indica alla nostra Italia invertebrata che fine faremo tutti se non usciamo da questo letamaio etico. Un vecchio professore come me, uno che nella vita ha frequentato più libri che persone, guarda ogni giorno negli occhi i suoi studenti. E vede il timore sopravanzare la speranza, l’accomodamento vincere sul coraggio, lo scetticismo prendere il posto dell’utopia. Francamente, è difficile dire come uscire da questo antro in cui ci siamo cacciati. Avevo sempre pensato che bastasse che ognuno di noi facesse il proprio dovere ogni giorno. Ma ora questo non basta più. Ci vogliono strumenti straordinari. Si tratta anche di un percorso che può essere pericoloso. L’Italia seria chiede autorevolezza. Ma l’autorevolezza spesso è stata confusa con l’autoritarismo. Così che la risposta a questo tipo di domanda si può incarnare in «un uomo solo al comando», un uomo che somigli più a Mussolini che a Fausto Coppi. Contro questa stasi letale e i pericoli connessi dobbiamo cercare una via comune. Non più destra contro sinistra e viceversa, non più nord contro sud e viceversa, non più religiosi contro laici e viceversa: un progetto di ricostruzione dell’etica pubblica, che non si può rimandare

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Fonte: http://www.perlagrandenapoli.org/?p=2979

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