XX Settembre vendesi

Mi hanno detto non pochi dirigenti ed elettori della nostra area politica, persone di cultura media ed anche buona, che frequentano edicole e biblioteche, più di commercialisti e fiscalisti per evadere e condonare. Con molti di questi amici ho dovuto discutere, da quando ci si sono messi Alemanno e Bertone per il XX settembre nuovo format, compresi i restauri a Porta Pia, lavata con perlana.
Perfino le lapidi e la colonna della Vittoria laica sono state ripulite dal Campidoglio, dopo decenni di menefreghismo democristiano e laico: restauro degno dei merletti della signorina Felicita, «l'amica di nonna Speranza» cantata da Gozzano, tanto che le mini-aiuole sotto le mura sono tornate verdi come fossero l'Olimpico o San Siro, dopo decenni di bivacco per vagabondi, barboni e drogati, fra mucchi di bottiglie e intenso "odore" di piscio.
Dunque i miei amici al bar e i politici in Transatlantico, mi consigliavano di non farmi il sangue amaro per questo nuovo format, «tanto, del 20 settembre non importa più a nessuno». Cosa vuoi? Stipendi bassi e tasse alte, precari d'industria, servizi, amministrazione; lavoro nero nella miriade di negozietti, giovani costretti a campare su papà e nonna, schiavismo mafioso e camorristico, governo occupato dai processi del premier, opposizione erotizzata dalle liti, appartamentino di Montecarlo che da mesi impegna i servizi segreti (mentre i soldati muoiono in Afghanistan) e i loro giornali. Cosa vuoi, tu appartieni ad altre generazioni, anche non se proprio a quelle del 1870, alla gente d'oggi non interessa se a celebrare la ricorrenza sia il capo del governo pontificio, contro il quale fu fatta la breccia, e non il capo del governo italiano: erede, in teoria, di quelli che la profetizzarono e la fecero, Cavour, Lanza, Vittorio Emanuele, Cadorna, Manzoni (e anche Garibaldi e Mazzini, che però la breccia volevano scavarla da soli, i romantici).
Ma che "interessi a nessuno no" proprio non mi sembra. Non interessa alla nostra parte, perché la nostra parte non ha più molto a cui richiamarsi e molto da dire. Ma interessa a clericali e fascisti, per dire, Alemanno e Bertone (come nel Novecento a Mussolini e Craxi, Gasparri e Casaroli): i quali fanno Trattati del Laterano, dove si fissano le regole della convivenza fra le due Rome, ma anche i concordati, dove si parla di soldi e di utilità varie. Che l'Italia non potesse vivere spaccata, si sa da 140, 150 e forse anche più anni: la legge delle Guarantigie (1871, cioè l'assoluta indipendenza e libertà del papa anche senza potere temporale), i vincitori di Porta Pia la offrirono a Pio IX addirittura prima che Vittorio Emanuele II mettesse piede al Quirinale. Sono cento anni (1913) che Giolitti, nella sua politica di "conciliazione silenziosa" e di allargamento del consenso allo stato, realizzò il Patto Gentiloni fra elettori cattolici e candidati liberali moderati. Sono sessantadue anni (1948) che la repubblica italiana si regge su una Costituzione che recepisce patti lateranensi e concordato, in modo anche troppo unilaterale e con crescente pratica discriminatoria.
C'è, dunque, chi ha interesse a riprendersi Porta Pia, strappandola alla storia dell'unità d'Italia, che - come ha ribadito Lucio Villari - fu «cavouriana e liberale». Per le gerarchie, è molto più importante dei soldi e dell'egemonia "etica", sottolineate invece da non pochi partecipanti alla modesta contromanifestazione radicale del 19 settembre, che ha anticipato e disconosciuto quella ufficiale del 20. C'è una chiesa di "riconquista" che, sapendo di avere un avvenire, sia pure non più onnipotente, cerca di far proprie quante "radici" è possibile: non solo "radici cristiane" dell'Europa, fino a predicare l'antirelativismo perfino in Gran Bretagna, o "radici cattoliche" dell'Italia; ma si comporta come se cattoliche (nel senso di romano-papale) fossero anche le radici del Risorgimento e dell'unità italiana. Al punto che in Campidoglio la celebrazione è stata consacrata da storici graditi e ammessi da Bertone (a parte monsignor Ravasi, che ne aveva titolo) e dedicate a Pio IX, lo sconfitto di Porta Pia, l'ultimo papa-re. Non pretendevamo che fosse dedicata a Vittorio Emanuele II, primo re di quella che il repubblicano Spadolini battezzò «la monarchia giacobina»: a farlo aveva pensato anche troppo il cinquantenario del regno nel 1911, tutto in chiave dinastica. Né personalmente crediamo che la repubblica avrebbe oggi la forza morale e culturale per osarlo. Ma che almeno si parlasse di chi il risorgimento lo volle, non di chi lo combattè fino all'ultimo e dopo.
Ora ai miei amici che mi esortano a non farmi il sangue amaro (tranquilli, ma alla mia età il sangue è poco ricettivo) faccio presenti due cose, che potrebbero fare il sangue amaro a loro. Se non hanno acqua nelle vene. La prima è che a noi «non interessano più queste cose» - come loro dicono - perché non abbiamo il coraggio e la dignità di rivendicare le nostre radici di nazione, di stato e di liberaldemocrazia, temendo che la rivendicazione ci metta in contrasto con la vulgata repubblicana e con altri potentati e culture coi quali bisogna convivere; e perché noi stessi non siamo uniti nel riconoscere quelle radici. Si pensi al trattamento riservato dalla storiografia egemonica ai tre stupendi volumi di Rosario Romeo su Cavour. Anche allora, 1969-'84, quando uscivano, il personaggio «non interessava più», e soprattutto le sue idee e la sua realizzazione non collimavano con la vulgata e con l'insegnamento di marxisti e clericali. E però, amici, mettetevi in testa che, se non ritroviamo nella patria - come fu concepita e realizzata - la radice comune, non basterà l'antiberlusconismo a fare di noi una forza organica e vincente. Perdiamo sempre. La seconda cosa - che mi costa anche di più riconoscere - è che tuttavia dobbiamo esser grati a monsignor Ravasi, organizzatore culturale di questa Porta Pia di Pio IX, e al cardinale Bertone, tornato a riprenderne le chiavi. Così, millantando una santa alleanza Stato-Chiesa per l'Italia, sarà possibile salvare l'unità d'Italia dal bossismo secessionista, garantendo una presenza culturale "unitaria" dalle Alpi a Pantelleria: quella presenza che la cultura"laica" e le sue espressioni politiche non hanno più saputo o voluto o potuto esprimere e garantire. Quanto ai liberali come noi, minoranza come sempre, nella nicchia come sempre, non ci resta, proprio come nell'Ottocento, che la ventata laica-liberale del mondo arrivi anche in Italia, purché non confusa coi delitti liberisti della globalizzazione.
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