Voto Usa il fattore non è Barack

Dalla Rassegna stampa

Più che un voto per due Governatori, le elezioni locali americane, appena concluse, sono state una indagine psicologica sullo stato d’animo del Paese.
Il risultato in numeri segna per i Democratici una secca sconfitta in Virginia e New Jersey, con la piccola consolazione della vittoria per un seggio in Congresso nello Stato di New York. Ma i numeri dicono poco: dopotutto, Bill Clinton nella sua prima presidenza perse tutte le midterms, e rivinse le presidenziali.

La misura vera del risultato ha piuttosto a che fare con il cataclisma economico abbattutosi sulla società americana fra il trionfo presidenziale di Obama un anno fa e questo nuovo ricorso alle urne. Cosa ha lasciato nell’anima dei cittadini quel trauma, quanto è rimasto della precedente America, forte e fiduciosa, in quella attuale? Per dirla, insomma, più chiaramente: oggi verrebbe rieletto Obama?
Senza questi dubbi a fare da sfondo, non si capirebbe bene l’attenzione con cui si sono seguite queste ultime elezioni. E in effetti, il risultato, visto da questo punto di vista, accende una luce su almeno tre luoghi essenziali, in cui l’opinione pubblica sta oscillando, dubitando, e forse cambiando di nuovo.
Il primo di questi luoghi è, ovviamente, la percezione del potere presidenziale. Le motivazioni di voto ci aiutano notevolmente a capire questo punto.
Più della metà dei votanti, sia in Virginia sia in New Jersey, ha detto di aver votato sulla base delle preoccupazioni per la situazione economica. I più scontenti si sono rivelati gli indipendenti, cioè i non iscritti a nessuno dei due partiti. Sono loro ad avere mostrato nei mesi passati il maggior timore per il piano di assistenza medica e per la crescita nella spesa pubblica. Questi votanti sono proprio coloro che, nel 2008, hanno dato la maggioranza a Obama: il 59 per cento di loro (contro il 40 per cento) in Virginia, e il 61 per cento (contro il 38 per cento) in New Jersey, votò per il cambio. Gli analisti così leggono il trasferimento di consensi: le difficoltà economiche di un anno fa vennero imputate a Bush, quelle di oggi vengono attribuite pienamente a Obama.
Questa affermazione sembra una banalità, ma non lo è. In campo democratico infatti la retorica del cambiamento che ha dominato le presidenziali non è mai stata mandata in soffitta. Anzi, Obama è ancora oggi rappresentato come il profeta (più che il presente autore) di un cambio, dopo anni di sfacelo di amministrazione Bush. Nella campagna elettorale appena finita i candidati democratici hanno presentato la loro eventuale elezione come la conclusione del ciclo post-Bush aperto dalla vittoria alla Casa Bianca. Lo stesso Obama ha rinforzato questa idea, recandosi molte volte in New Jersey.
Di conseguenza è l’«effetto Obama» l’elemento venuto meno. Lo si vede anche - ed è bruciante per i Democratici - nell’assenza stavolta alle urne di quella quota di voto in più fra i giovani, i neri, i professionisti, che nel 2008 ha permesso l’alzarsi dell’onda. I votanti sotto i 30 sono stati solo il 10 per cento (la metà dello scorso anno); diminuita la partecipazione dei neri, mentre la quota dei «non diplomati» è passata di quasi 30 punti in Virginia e 15 in New Jersey ai repubblicani.
Cosa significhi la scelta di questo elettorato non è chiaro: che questo voto si mobilita solo per Barack? E’ solo perplessità o è già sfiducia? Di sicuro possiamo leggere anche questa assenza come una indicazione che, da Mito, Obama si è già trasformato in Presidente da giudicare come tale.
Ma non è tutto. E non è tutto contro i Democratici quello che si muove negli umori degli elettori.
Dalle urne è uscito anche un verdetto punitivo per i Paperoni di Wall Street. Il democratico sconfitto in New Jersey è Jon S. Corzine, banchiere, che ha fatto la sua fortuna in Goldman Sachs, da dove uscì nel 1999 con 400 milioni di dollari in tasca. Quasi sconfitto è stato anche l’altro Riccone di questa campagna elettorale, il pur popolarissimo Michael Bloomberg. Il sindaco di New York e imprenditore, che per essere rieletto la terza volta al suo incarico ha fatto cambiare le regole del Comune di New York, ed ha speso 90 milioni di dollari in pubblicità, ce l’ha fatta a malapena contro il suo avversario carneade William Thompson Jr. Evidentemente, il crollo di Wall Street ha lasciato una scia profonda nei cuori degli elettori.
Una terza luce è accesa infine anche per i Repubblicani. La vittoria dei Democratici per il seggio al Congresso nel distretto 23 dello Stato di New York è stata una vera bizzarria, frutto di un’abile manovra di Washington (pare ci abbia messo la manina Emanuel Rahm) che ha sfruttato uno scontro interno ai Repubblicani. La candidata scelta dai Repubblicani, Dede Scozzafava, attaccata per le sue posizioni su aborto e diritti civili dall’ala dura del suo partito, si è ritirata dalla corsa ed ha fatto votare il democratico. Una sconfitta esemplare per i Repubblicani, segno dei tempi. La spaccatura fra i conservatori tradizionali, e i duri e puri alla Palin, non ha smesso infatti di lacerare il Grand Old Party. Lo stesso voto andato ai governatori vincenti è profondamente condizionato dai movimenti di base anti-Obama emersi nei mesi scorsi, quali la Tea Party Coalition in Virginia. Un disequilibrio che non sarà facile gestire per i Repubblicani, e che certo gioca a favore dei Democratici.
Questo è quanto. Finora. Ed è passato solo un anno. Ma di movimento velocissimo è anche fatta l’America nuova.

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