Volti laici

Dalla Rassegna stampa

Penso che la laicità sia un atteggiamento che dipende dalla vista. Si, proprio, dal senso della vista. Questa non vuole essere una definizione ma, al più, un assaggio propedeutico, da prendere con le molle. Il laicismo invece - giova sempre tenerlo presente - è una costruzione mentale sopra segmenti di storia, di storiografia e anche di propaganda polemica piuttosto obsoleta e abusata. La laicità, almeno come la intendo io, non potrà mai essere né obsoleta né abusata. È  un atteggiamento lineare come lineare è la vista, che sfiora le cose, le identifica, le nomina: potrà poi ragionarvi sopra, ma senza dimenticare che la sua origine è "oggettiva".
 Mi sono passate per la mente queste riflessioni mentre visitavo la mostra sui pittori del Risorgimento, alle Scuderie del Quirinale. Non è una gran mostra, avrebbe potuto essere molto più ampia e approfondita. È anche snobbata dal pubblico, come in generale è snobbato il nostro Ottocento pittorico, sempre tenuto in condizione di inferiorità, di fronte agli impressionisti francesi (e passi) ma anche di fronte ai preraffaelliti inglesi (e qui non ci siamo proprio). Scorrendo tra i vari Fattori, Induno, Borrani, Cammarano, Lega, ecc., ripercorrevo il loro percorso intellettuale.
 Il realismo visivo non nasce con i pittori del Risorgimento. Essi sono partecipi di una coeva cultura, di una visione del mondo di ben più ampia portata. Tutta la pittura del tempo, anche quella non intenta a ricostruire episodi risorgimentali, nasce da una poetica del "vero" che direi, alla francese, una poetica "du regard", della vista, piuttosto nuova nella vicenda artistica italiana. La definirei anche una pittura laica, la prima pittura laica della storia dell’arte italiana. È  infatti pittura di popolo, come se per la prima volta pittori, artisti, ecc., si accorgessero di una umanità non trasfigurata, non idealizzata ma colta nella sua immediatezza storica ed esistenziale. Più correttamente, è anzi pittura di "un" popolo, il popolo italiano, che nasce dai loro pennelli. Mi appare come un notevole sforzo intellettuale per darci uno spaccato, anche sociologico, dell’Italia che si veniva facendo.
 Induno è maestro del genere. In una delle sue tele qui esposte, che evoca lo scontro dell’Aspromonte nel quale Garibaldi venne ferito a una gamba dai soldati del Rattazzi, il pittore inserisce, "identificati uno per uno", "i protagonisti, noti ed anonimi" dell’evento (nota il catalogo). Ma in ognuna delle sue opere Induno letteralmente trascrive volti, figure, personaggi grandi e piccoli, con una fedeltà al "vero" che non riesco a definire se non, appunto, laica. In generale non c’è, in queste opere, trasfigurazione. A volte appare l’enfasi del gesto, un po’ alla maniera neoclassica del David, ma sono momenti che poco tolgono all’intensità del rigore oggettivo: persino i grandi quadri di tema militare, rivoluzionari "anche dal punto di vista formale", sono opere "volutamente prive di ogni retorica". Queste scene di guerra dominano la mostra. Bene, guardate uno dei tanti cavalli che Fattori dipinge, ripresi di scorcio o di schiena. Troverete riferimenti a Paolo Uccello al Leonardo della "Battaglia di Anghiari", ma anche dovrete riconoscervi la qualità di una vista "naturale" che non ha eguali al mondo. Grazie anche a questi pittori, l’Ottocento artistico italiano è un bel secolo. Non so se vi sia una coeva pittura ispirata ai Borboni, ai Lorena di Toscana, o allo stato della chiesa. Se c’è la si esponga, sarà un utile confronto.
 
 Le cannonate di Cadorna
 Insieme a me si aggirava nelle sale delle Scuderie, tra le pareti addobbate di bianco, rosso e verde, un gruppetto di quattro o cinque donne, forse straniere, con alla testa un prete, giovane e altissimo. Mi sono chiesto cosa provassero di fronte a quadri provocatori, come quello, celeberrimo, del Cammarano, raffigurante i bersaglieri che a passo di carica entrano nella breccia. E chissà cosa avrebbero pensato se avessero potuto ammirare una tela (che alla mostra non c’è) di Domenico Amici, che mostra le mura aureliane sbriciolate dalle cannonate del generale Cadorna e la cupola di San Pietro che appare, solenne, attraverso lo squarcio.
 Sentimenti e giudizi difficili a sbrogliare. Perché di qui nasce una contraddizione, se non una vera e propria lacerazione culturale (una sorta di hegeliana "coscienza infelice") cui la chiesa non ha saputo ancora porre rimedio se non accusando la concezione stessa della laicità, definita come prona solo a interessi e valori materiali(stici). La contraddizione si è vista anche nelle recenti commemorazioni del 20 settembre, con tutti quegli alti prelati intrigati assieme a improbabili eredi del Risorgimento.
 La chiesa non può non accettare la storica data, ma si ostina a negare l’intima necessità della sua autonomia  etica, la cultura della modernità laica che la imbeve e la giustifica. È una contraddizione su cui si è molto soffermato Gianni Baget Bozzo, un pensatore che non credo sia molto amato, per questi suoi giudizi, dalla chiesa e dai suoi interpreti ed esegeti.

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