La verità su Cucchi

Dalla Rassegna stampa

Venerdì, Uzoma Emeka, nigeriano di trentadue anni, ristretto nel carcere di Castrogno in provincia di Teramo è morto dopo un ricovero ospedaliero avvenuto a cinque ore dal momento in cui si è sentito male.

Emeka era stato il testimone del pestaggio avvenuto il 22 settembre scorso di un altro detenuto, un tossicodipendente colpito da una guardia penitenziaria. Il caso, ancora aperto, era stato reso pubblico da Serenella Mattera – che oggi ne scrive ancora a pag. 6 - in un articolo pubblicato dal Riformista che riprendeva un giornale locale, La Città. Mattera raccontò anche la reazione del comandante della polizia penitenziaria del carcere, Giuseppe Luzi: «Non si massacrano così i detenuti in sezione, si massacrano sotto. Si è rischiata la rivolta perché c’era il negrettto, il negro, ha visto tutto». Le parole del comandante furono registrate da un testimone e il comandante fu rimosso dal Ministero di Grazia e Giustizia.

Uzoma Emeka è il 172 esimo detenuto morto in carcere nel 2009. L’autopsia effettuata ieri ha accertato che Emeka è morto per un tumore al cervello. Al momento non si sa ancora se gli fosse stato diagnosticato. Dunque è una coincidenza rispetto al suo status di testimone, ma come minimo è comunque un caso di abbandono terapeutico. La magistratura ha aperto un’inchiesta e vedremo.

Il caso Castrogno emerse qualche giorno dopo la morte di Stefano Cucchi all’ospedale Pertini di Roma. Ieri Ignazio Marino, senatore del Pd, capo della commissione d’inchiesta sul servizio sanitario nazionale, ha riferito un fatto nuovo: il medico che visitò Cucchi nel carcere di Regina Coeli il 16 di ottobre avrebbe subito delle pressioni per autosospendersi. L’amministrazione del carcere avrebbe anche cercato di ritardare l’audizione del medico davanti alla commissione, riferendo che al momento della convocazione era all’estero per il viaggio di nozze. Il medico invece era in Italia.
I radicali stanno protestando contro l’archiviazione per la morte di Aldo Bianzino, un falegname deceduto in carcere nell’ottobre del 2007 a Perugia, dopo un arresto per la coltivazione di piante di canapa. L’agente di turno venne accusato per omissione di soccorso. Qualche giorno fa il pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione e il gip l’ha accordata. La famiglia di Bianzino ritiene che ci siano margini per la riapertura del caso, perché la lacerazione del fegato che fu riscontrata non poteva essere dipesa dall’energia del massaggio cardiaco nella fase di rianimazione come conclusero i consulenti medico-legali del pm. Adesso c’è un procedimento penale contro una guardia carceraria per omissione di soccorso, udienza fissata il 20 giugno a Perugia.

Su ognuna di queste morti bisogna fare chiarezza. Sul caso Cucchi, è necessaria una chiarezza triplice. Cucchi è stato arrestato dai carabinieri, custodito dalla polizia penitenziaria e poi dai medici di un ospedale. E’ stato affidato a tre istituzioni primarie dello stato, a tre simboli carnali della civiltà, della democrazia, e della tutela dei diritti dei deboli. Nessuna di queste istituzioni si è assunta una responsabilità, nessuna ha assunto un atteggiamento dubbioso e nessuna ha provato a chiedere scusa per non saper neppure giustificare la propria irresponsabilità per quel terzo degli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi che li riguardava. L’istituzione è responsabile anche di quello che non sa.

Lo stato del nostro sistema giudiziario è estremamente fragile. I tempi dei processi, la carcerazione preventiva, la persistenza di alcune debolezze strutturali (per esempio, il tema della separazione delle carriere), la generosità dei meccanismi premiali: sono tutti problemi da risolvere che minano la reputazione della Giustizia. Il caso Cucchi ci dice che il sistema è fragile sin dalla fase dell’arresto, sin dalla fase del fermo addirittura (ricordate la morte dello studente ferrarese Federico Aldrovandi?), e del resto basta seguire le trasmissioni e le pagine di Radio Carcere. Ma ci dice anche qualcosa su noi stessi. Non si può dimenticare Cucchi. Ha ragione Pierluigi Battista: prima un sussulto di dignità e poi assuefazione collettiva, nessuno che abbia ancora la stessa voglia di chiedere come e perché è morto.

Questa è una storia che riguarda i giornali, ovviamente. Ma riguarda anche la classe dirigente politica. Il parlamento sembra poco reattivo e il governo anche. Il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, si compiacque del fatto che i Carabinieri si fossero rivelati estranei. Convochi il capo dell’arma dei Carabinieri di Roma e si faccia spiegare meglio. La stessa cosa faccia il ministro della Salute con la direzione dell’ospedale Sandro Pertini. E così faccia anche il ministro della giustizia, Angelo Alfano con i dirigenti di Regina Coeli. Se vogliamo dare credibilità alla necessaria, complessiva riforma della giustizia italiana, dobbiamo cominciare da qui, da un arresto per un reato minore concluso in una tragedia. Per rendere più chiaro all’opinione pubblica che la cattiva giustizia non è una dimensione astratta, riguarda tutti noi. Stefano Cucchi era un ragazzo di trentuno anni, diplomato in un istituto tecnico per geometri, che viveva con sua madre e suo padre.

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