La vera foto di un fallimento

Sembrano le foto di scena di un film sboccacciato degli anni Novanta. Mancano Boldi e De Sica, ma ci sono tante cortigiane intente a intrattenere quel che rimane di una Magna Grecia in disfacimento. In mezzo, lei: Renata Polverini, la presidente di ferro travolta dall’insolito destino di essere la copertura di una banda di imbroglioni con il Suv nuovo di zecca e la villa nel bosco.
Non c’era di peggio che potesse segnare la parabola di una donna che ha costruito la sua carriera politica con abilità e che sull’onda delle sue innumerevoli apparizioni tv si era conquistata il primo posto. Ma non sono quelle foto, così pacchiane e ridicole, il vero fallimento della presidente della Regione Lazio.
In poco meno di trenta mesi, da quel 30 marzo del 2010 quando fu eletta battendo Emma Bonino, è riuscita infatti a distruggere l’immagine della Regione che governa per altri motivi ben più gravi: è stata il motore di un sistema di governo che ha accumulato passivi su passivi di bilancio, ha disarticolato la struttura sanitaria aumentando notevolmente la spesa e riducendo i servizi ai cittadini, ha ridotto gli uffici della Regione a una specie di bancomat dal quale prelevare i soldi per usi e consumi privati.
Dentro questa voragine immorale che sta risucchiando impresentabili personaggi del Pdl - a cominciare da quel Franco Fiorito detto Batman che oggi si definisce con orgoglio «er federale de Anagni» - ci è finita anche lei che ha coperto, con la sua responsabilità politica, un degrado che fa paura. E che anzi ha favorito. Moltiplicando le commissioni consiliari, e di conseguenza gli staff, le segreterie, i consulenti e le auto blu.
Consentendo la nascita di innumerevoli gruppi politici composti da una sola persona, con il seguito di assistenti e l’aggiunta di benefit e privilegi. Nominando quattordici assessori esterni (cioè mai eletti) ai quali ha garantito un vitalizio ciascuno che costerà ai contribuenti un milione di euro l’anno per trent’anni.
Assumendo addirittura un fotografo personale che ha uno stipendio di 75mila euro. In questo grande circo della mediocrità Renata Polverini ha permesso senza muovere un dito che venisse fatta a pezzi la funzione fondamentale delle istituzioni e quindi della politica: lavorare per l’interesse generale e non per gli affari privati, occuparsi dei problemi dei cittadini e non degli appetiti del clan di fedelissimi, pensare ai bisognosi e non a chi ha il bisogno irrefrenabile di privilegi da esibire.
È diventata così, con i suoi silenzi durati troppo a lungo, l’emblema del disfacimento di un modo malato di intendere la politica che va annientato al più presto. Per tutto questo la Polverini, a suo tempo sindacalista tenace e anche coraggiosa nel mettersi in gioco, oggi cade miseramente. «Con me caschi male, so’ della strada», disse un giorno con tono di sfida a chi la contestava durante un comizio ai Castelli Romani.
Il problema però è che partendo dalla strada in cui è cresciuta è finita nel vicolo buio dove s’aggirano briganti e falsari. Poteva anche salvarsi, dimettendosi subito con il coraggio di chi sa rischiare tutto. Non l’ha fatto. Oggi per lei è troppo tardi. Oggi bisogna fare di tutto per salvare un’istituzione che rischia di essere travolta dal fango.
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