Vendola, mossa del cavallo

I due quesiti referendari depositati da Vendola (insieme a Di Pietro) insegnano molte cose. In primo luogo codificano l'eterno ritorno del sempre uguale. La sinistra italiana si avvicina all'area del governo, ma si porta dietro le sue solite contraddizioni.
Le stesse che hanno colpito a morte, rendendola effimera, l'esperienza dell'Ulivo prodiano, che in altre circostanze avrebbe potuto invece segnare una lunga stagione della politica italiana.
L'uso dell'arma referendaria per abolire due leggi-simbolo sul lavoro, proprio quando si chiede al centrosinistra di definire una chiara proposta di governo, è in sé dirompente. Non si può dar torto a Tiziano Treu quando afferma che si tratta di un'iniziativa «legittima ma politicamente improponibile». Nel merito significa bloccare sul nascere il tentativo messo in opera da Bersani, pur fra mille incertezze, di mettere a punto un progetto riformista. Non a caso Vendola si è mosso d'intesa con Di Pietro, ossia l'ex alleato che il Pd ritiene di abbandonare al suo destino in favore del patto elettorale con il partito vendoliano. Operazione, come si vede, più complicata del previsto.
Ammesso che si riesca a lasciar fuori Di Pietro dall'intesa Pd-Sel, tutto lascia pensare che nel prossimo Parlamento i seguaci di Vendola tenderanno a fare massa con gli eletti dell'IdV e magari con il Movimento Cinque Stelle. Bersani ne è consapevole? Dispone di un piano per contenere la spinta della sinistra radicale che sarà possente, soprattutto se il clima sociale nel paese dovesse peggiorare? Al punto in cui siamo i sondaggi tendono ad accreditare l'alleanza Bersani-Vendola di una cifra intorno al 33 per cento. Più o meno l'area tradizionale del vecchio Pci nelle fasi di grande espansione. Con la differenza che il Pci non aveva bisogno di sanare quelle contraddizioni che oggi invece il gruppo dirigente del Pd non può permettersi se vuole essere un credibile partito di governo.
La questione quindi non riguarda solo i due referendum. Ma come Vendola intende condurre la campagna elettorale e come vuole collocarsi una volta approdato in Parlamento. Se l'obiettivo è risucchiare a sinistra il Pd fino a spaccarlo, possiamo concludere che si tratta di un disegno politico rispettabile, ma drammaticamente pericoloso. Vuol dire mettere in angolo i "centristi" del Pd (da Enrico Letta a Fioroni, Follini e altri) e dominare di fatto la linea politica del partito bersaniano.
Non a caso Vendola si compiace del fatto che il segretario, nel discorso di Reggio Emilia, non ha mai nominato l'«agenda Monti» e anzi ha dato l'impressione di prendere le distanze dal premier. In realtà Bersani ha fatto l'equilibrista, nello sforzo di tenere insieme le tante anime del suo partito. Ma per riuscirci, in assenza di una sintesi politica convincente e di idee forti, avrebbe bisogno di qualche aiuto: per esempio ci vorrebbe un Vendola che non gli mettesse subito i bastoni fra le ruote, come invece è subito avvenuto.
Inutile dire che, date le premesse, anche l'alleanza di governo - successiva al voto - con il centro di Casini si presenta come una strada in salita. Il capo dell'Udc-Italia vorrebbe un Bersani solido e in grado di tenere a freno l'estrema sinistra. Può ancora accadere, ma sarà bene che il segretario del Pd sia più determinato nei prossimi mesi.
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