Vedi alla voce acqua

Sulla Repubblica del 10 agosto, Stefano Rodotà imposta e propone una tematica di grande attualità e spessore: la individuazione, la difesa e la promozione dei nuovi "diritti fondamentali" dell'uomo, quelli che via via emergono dalle dinamiche tecniche, culturali, etiche messe in moto dalla globalizzazione. Il discorso è complesso, ne coglierò frammenti. Per Rodotà, la versione moderna dei classici diritti fondamentali sono quelli che definisce i "beni comuni": "Nel 1847, quattro mesi prima della pubblicazione del Manifesto dei comunisti, Alexis de Tocqueville gettava uno sguardo presago sul futuro, e scriveva 'ben presto la lotta politica si svolgerà tra coloro che possiedono e coloro che non possiedono: il grande campo di battaglia sarà la proprietà"'. Quel campo di battaglia, prosegue Rodotà, "si è progressivamente dilatato. Oggi sono appunto i beni comuni dall'acqua all'aria, alla conoscenza, ai patrimoni culturali e ambientali - al centro di un conflitto planetario". Come esempio simbolo di "bene comune", Rodotà indica "l'accesso all'acqua come diritto fondamentale di ogni persona'', secondo una recente risoluzione dell'Assemblea delle Nazioni Unite.
Una pari necessità e urgenza investe gli altri beni comuni che Rodotà elenca. Non saprei dire se condivido l'esempio dell'acqua: l'accesso all'acqua non può essere negato a nessuno, ma l'efficiente raccolta e distribuzione dell'acqua costa, e qualcuno deve pur pagare. Resta invece corretto e fondamentale il ragionamento nel suo complesso, in particolare per quel che riguarda il diritto all'informazione.
In un mondo che sembra impazzire attorno a questioni a volte persino miserabili o secondarie, o che si affida, per risolvere quelle più inaccessibili, alla speranza e all'attesa di interventi miracolanti e mirabolanti, il richiamo al tema dei diritti dell'uomo da affrontare con l'impiego razionale e laico delle risorse intellettuali, politiche, sociali ed umane, sembra quanto mai opportuno. Una osservazione tuttavia mi pare necessaria, a completamento se non a parziale correzione del ragionamento di Rodotà. Davvero si deve attribuire la crisi attuale dei valori e degli equilibri, e l'urgenza di un nuovo impegno per la difesa e la promozione dei beni comuni, alla minacciosa, esclusiva prevalenza della "logica del mercato"? Secondo il saggista occorre "contrastare la sottrazione alle persone delle opportunità offerte dalla innovazione scientifica e tecnologica", per non fare avverare la profezia secondo la quale "la tecnologia apre le porte, il capitale le chiude". Che il capitale possa, di volta in volta, contrastare questa o quella innovazione o subornare l'informazione in difesa di interessi costituiti, è ovvio: ma in linea generale penso che sia l'innovazione tecnologica che l'informazione siano addirittura figlie del capitale.
La società precapitalistica non praticava l'innovazione in forma strutturale (mi pare sia di Schumpeter la definizione del sistema capitalistico come il sistema della "distruzione creatrice"). L'innovazione e l'informazione sono al centro del sistema del capitale. Certo, la globalizzazione degli anni scorsi ha provocato danni oltre a indiscutibili benefici, ma soprattutto per la arrogante filosofia che la sottintendeva.
Senza la minima attenzione
Piuttosto, come non annoverare tra gli avversari sia della libertà di informazione come dell'innovazione metodica i fondamentalismi, religiosi o meno? La modernità non corre su una monorotaia, ogni innovazione e apertura non può non suscitare resistenze e non tutte le resistenze sono negative, la dialettica del confronto è parte stessa del sistema della libertà. Ma ci sono resistenze che si collocano intenzionalmente fuori del terreno del confronto aperto (popperiano, se si vuole), richiamandosi a una ideologia fissa e immutabile che ha la pretesa di rappresentare la verità. Resistenze di questo tipo circolano dappertutto, e sono assai potenti. Infine. C'è un indubbio problema di regolamentazione dell'economia, per evitare di ricadere nella globalizzazione senza regole e le sue gravi manchevolezze. Ma oggi siamo in grado di porci una domanda che ieri non appariva con chiarezza: chi è il soggetto, qual è l'autorità cui demandare istituzionalmente il compito di delineare le regole necessarie a una gestione sana, equilibrata e corretta di una economia inevitabilmente globale? Il fallimento della globalizzazione è (anche) nel non aver capito che gli stati nazionali non erano - non sono - in grado di definire un quadro condivi so di regole in tal senso. In definitiva: il problema dell'individuazione, difesa e promozione dei beni comuni vede operare vari soggetti, inestricabilmente intersecati tra loro: l'economia, i fondamentalismi, la dimensione statuale, l'autorità capace di uno sguardo globale. Un panorama politico di enorme respiro, al quale sicuramente i nostri governanti non prestano la minima attenzione.
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