Unità e chiesa

Dalla Rassegna stampa

Il 24 maggio 1915, sul "Memoriale" - il diario - del monastero delle clarisse di Monteluce di Perugia furono vergate queste righe: "L'ora terribile è suonata e la guerra tanto temuta e scongiurata con tante preghiere fatte dì e notte è stata dichiarata dal nostro re Vittorio Emanuele III all'Austria per rivendicare Trieste e Trento […] mentre un esercito si batte per la patria, noi pregheremo per essi e la preghiera affilerà le armi loro e le renderà robuste. O Signore, fate che tornino presto tutti con i canti della vittoria". Su quello stesso "Memoriale", una monaca (naturalmente, di una o due generazioni prima) aveva scritto, in un giorno imprecisato del settembre 1860: "...tornato il sullodato padre quasi correndo dal Vescovado ci annunziò che a momenti si doveva partire per andare in altro monastero dovendo a breve arrivare l'armata piemontese che si sarebbe qui accampata. Immagini ognuno il disturbo, la confusione, lo sbigottimento di tutte noi...".
Nell'arco di cinquanta anni, la situazione oggettiva e la percezione soggettiva delle sorelle sono letteralmente capovolte. I discendenti dell'armata che nel 1860 metteva sgomento nei loro animi diventano l'esercito per la cui vittoria si levano le preghiere di suore altrettanto pie e devote che patriottiche. Eppure, in quei cinquanta anni, il confronto tra il nuovo stato e la chiesa, o la Santa Sede, era stato, a volte, rovente. Ma non bastano il "Sillabo" o la "Rerum Novarum" a fermare le battagliere suore del 1915, né vale la pena scomodare il patto Gentiloni del 1912 per farcene capire gli entusiasmi.
 
Il mondo cattolico tenuto separato dall'ufficialità del "non expedit" esprimeva in quegli anni energie popolari e umane che si mescolarono con quelle dei soci, delle mutue operaie socialiste o repubblicane, con i frequentatori ovviamente positivisti e laicisti - delle palestre ginniche, dai baffoni a manubrio e le canottiere a righe orizzontali. Secondo gli autori dei saggi raccolti nel libro di cui voglio parlare ("I cattolici che hanno fatto l'Italia", a cura di Lucetta Scaraffia, Landau ed., 2011, euro 23,00), "ci sono stati molti cattolici, anche religiosi, che hanno contribuito in svariati modi a creare una nazione unita socialmente e culturalmente". Anzi la Scaraffia, nella sua introduzione, prosegue: "Soprattutto, è stato fondamentale l'apporto delle nuove congregazioni di vita attiva sorte intorno alla metà dell'Ottocento in seguito alla soppressione degli enti ecclesiastici (...). Dietro a queste iniziative c'era l'elaborazione di una nuova cultura cattolica, chiamata intransigenza, di cui finora è stato colto solamente l'aspetto antimoderno e spesso anche nazionale". La nuova cultura mise in piedi "una rete di istituti assistenziali (...) ma anche nuove case editrici, società per azioni e banche con finalità sociale, che hanno accompagnato le realizzazioni dello stato in questi campi, spesso precedendole..." ecc. Un punto di vista interessante e, sicuramente non solo per un laico, abbastanza nuovo, intorno al fenomeno dell'intransigenza, finora accompagnato piuttosto dall'aggettivo "clericale". Scorro il libro e, nonostante sia curato da una polemista davvero "intransigente", lo trovo perfino mite, per nulla rivendicativo, fermo sulle sue convinzioni ma alieno dalle polemicucce antiunitarie che salgono da certi ambienti cattolici. Mite e sereno nel modo come ricostruisce episodi di una storia sulla quale finora io avevo avvertito il predominio della cultura e della storiografia laico-laicista.
Affascinante, il capitolo dedicato a Silvio Pellico e al suo capolavoro, ''Le mie prigioni". Dagli studi liceali mi restava il ricordo di uno scrittore piagnone, immerso in un cattolicesimo da sagrestia. Più o meno illeggibile. Poi lo lessi, ma restò spalmato di tutti i pregiudizi appresi a scuola. Nel saggio a lui dedicato, Oddone Camerana approfondisce alcuni aspetti dell'esperienza carceraria subita dallo scrittore saluzzese, mettendola a confronto con altre, non meno drammatiche, che ne condivisero gli esiti umani, e persino con quella, ben più alta, del "Processo" di Kafka: in tutte circolano sentimenti affini, che arrivano a mettere in discussione le basi stesse della giustizia, anche di quella di stampo illuminista che - ricorda il Foucault qui citato - rivoluzionò il concetto di punizione senza però toglierle il carattere di una violenza che la società infligge all'individuo.
 
Un processo valido
Molto altro ci sarebbe da dire su questo utile libro. Mi permetto una osservazione un po' polemica. Cosa spinse il mondo cattolico alla rivoluzione culturale da cui nascono le esperienze qui ricordate? Per quanto riguarda il Piemonte preunitario, la consapevolezza di una più ampia missione di "leadership" nazionale, che portò quel Parlamento ad approvare anche le leggi Siccardi di "eversione" dei beni ecclesiastici; poi, in definitiva, lo stesso processo di unificazione "istituzionale" rimproverato a una minoranza politica definita burocratica e incapace di assorbire e plasmare le diversità sociali e culturali di un paese in formazione. Quel processo fu invece valido, e fanno bene gli autori del libro a non versare lacrime su quanto ne fu spazzato via.

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