Una violenza grave e banale ma non ricorda gli anni settanta

Dalla Rassegna stampa

L’aggressione al presidente del Consiglio Berlusconi e gli scontri alla manifestazione per la quarantesima ricorrenza della strage di Piazza Fontana hanno indotto Giampaolo Pansa (sul Corriere di ieri) e alcuni commentatori ad affermare che il Paese sta tornando nel clima di esasperata contrapposizione, disordine, violenza e dolore che ha contraddistinto gli Anni Settanta. Non sono d’accordo. Non condivido tale pensiero e lo reputo improprio e pericoloso. Improprio perché, ricorrendo alla memoria di chi ha vissuto quel periodo, è di tutta evidenza l’assenza oggi del contesto sociale e politico che allora aveva attivato, sorretto e diffuso quelle gravissime tensioni. Tante realtà che ora diamo per scontate, non sono sempre esistite nella storia dell’Italia repubblicana e non erano riconosciute all’inizio del 1970: così è stato per i diritti dei lavoratori, per quelli di tutti i componenti della famiglia (la riforma è del 1975), per quello alla casa, eccetera. L’Italia (e non solo) era pervasa da un forte sentimento di ingiustizia sociale che, da sempre, costituisce la miccia di manifestazioni di violenza. Il mondo oggi non è più diviso in due blocchi ideologicamente agli antipodi e in pericoloso conflitto, sempre tesi ad affermare il proprio dominio. Blocchi capaci di sorreggere dittature affermatesi con inaudita crudeltà, blocchi che si confrontavano anche prendendo parte a conflitti devastanti. Blocchi che avevano nel muro di Berlino il simbolo del confine, nel mezzo dell’Europa, di due modelli diversissimi di intendere l’uomo, la società, la libertà, il futuro. E questi modelli costituivano la matrice profonda di ogni tensione sociale: amplificando ed esasperando le manifestazioni che nascevano da altro, demonizzando facilmente l’avversario non in relazione al suo argomento politico, ma in ordine al fatto che egli rappresentava (vero o non vero che fosse) il rischio dell’affermazione dell’altra realtà. E così in quegli anni in troppi hanno negato il confronto delle idee preferendo l’esercizio della violenza quale strumento per il raggiungimento dei propri fini. Il risultato sono stati centinaia di morti e di feriti. Poliziotti, magistrati, uomini delle istituzioni, politici, giornalisti, imprenditori, sindacalisti, operai, liberi professionisti, semplici cittadini in transito in una via o su un treno… Oggi la base di squilibrio politico e sociale che ha prodotto tutto ciò, pur nella grave situazione economica che mette in crisi tanti diritti, non c’è. Né esiste più il muro di Berlino e il modello occidentale si è affermato anche in quei Paesi che prima gli erano avversi. Eppure ora il germe della violenza, che appartiene agli istinti primordiali dell’uomo nella tensione della sua affermazione, sta nuovamente bussando alla porta: ma sia chiaro, ha ragioni diverse e molto meno profonde di quella degli Anni Settanta. Trovo pericoloso cercare di dare ai gesti violenti di oggi la maschera di quasi quarant’anni fa. Pericoloso perché, anche solo mossi da ambizioni emulative, alcuni potrebbero indossare quella maschera adottandone ragioni che adesso appaiono anacronistiche e slegate dalla realtà sociale. E altri potrebbero solo avere interesse a questo scenario. Quella di oggi è una violenza grave, quanto banale nella sua genesi, la cui soluzione coinvolge direttamente tutti rendendocene responsabili. Dobbiamo farlo prima che degeneri. Facciamo, esponenti politici (di tutte le istituzioni) e cittadini, tesoro del fatto che la demonizzazione dell’avversario, l’invocazione e l’evocazione della violenza e dei suoi galloni non produce confronto ma genera solo scontro. Ricordiamoci che la negazione delle autorità statali (siano esse il presidente della Repubblica o il presidente del Consiglio democraticamente eletto o la Corte Costituzionale) toglie i punti di riferimento che — in quanto istituzionali — non devono essere né intesi né promossi come di una parte, ma come dello Stato. Riaffermiamo nel nostro intimo il pensiero che le istituzioni, in quanto tali, non devono essere nemiche anche se rappresentate pro tempore da chi è espressione di un pensiero politico nel quale non ci identifichiamo, ma sono la premessa imprescindibile del vivere collettivo. Ricordiamoci tutti, cittadini o esponenti delle istituzioni, che in tema di violenza l’espressione fisica è solo quella finale legittimata da quella concettuale e ideologica, anche nascosta dietro l’estetica delle parole e dei fini. Il passaggio dall’uno all’altro tipo di violenza è talmente collaudato nella storia dell’uomo da imporre la concentrazione su toni assolutamente misurati: in Parlamento come tra amici. Ricordiamoci che (tanto più se parliamo a una platea) abbiamo il dovere di stigmatizzare ogni violenza: prima di qualsiasi altro commento; e se ci confrontiamo con chi ha idee diverse, dobbiamo offrire a lui e ai suoi argomenti il rispetto che vogliamo per i nostri. Ricordiamoci che dalla violenza degli Anni Settanta il Paese è uscito: che ciò è stato possibile perché ha saputo ritrovare nelle istituzioni tutte, dal Parlamento ai Tribunali, la sede per la definizione dei problemi della società. Buttare o meno alle ortiche quell’esperienza, tanto più in assenza dei presupposti che avevano generato quelle violenze, è una responsabilità di tutti: eletti ed elettori.

© 2009 Radicali italiani. Tutti i diritti riservati

SEGUICI
SU
FACEBOOK