Una sfida che non può finire in soffitta

Sono passati quasi dieci anni, ma sembra un secolo. Al vertice di Lisbona del marzo 2000 i leader europei di allora arrivarono con idee diverse, ma riuscirono a uscirne con un nobile sogno comune: fare dell’Unione europea l’area più competitiva al mondo nel 2010. Svecchiare, in quei tempi segnati dai ritmi brucianti della new economy americana (ricordate?), il Vecchio continente. Cercando di dare una spinta a internet e innovazione, ricerca e sviluppo sostenibile, senza dimenticare l’obiettivo di aumentare l’occupazione e di dare più spazio e lavoro a giovani, donne e anziani.
Riavvolgendo la pellicola ci si accorge che si trattò di un punto di equilibrio tra la spinta liberista pro-business dell’alleanza franco-spagnola di Tony Blair e José Maria Aznar e le preoccupazioni orientate al sociale di un asse francotedesco formato allora dal socialdemocratico Gerhard Schroeder e dal duo francese bipartisan di Lionel Jospin e Jacques Chirac, con l’appoggio dell’allora presidente italiano del Consiglio, Massimo D’Alema. Voglia di rincorrere la modernità americana e attenzione alle classi deboli, ricerca di competitività e rispetto dell’ambiente, ben shakerati diedero vita alla strategia di Lisbona. E da un summit che alla vigilia appariva enormemente confuso, uscì quasi per incanto una magica pozione, composta da un mix di indicatori che avrebbero dovuto aiutare l’Europa a crescere e a vincere la sfida sul mercato globale nel decennio successivo.
Com’è andata a finire lo sappiamo bene. La bolla della new economy americana è scoppiata, ma internet e banda larga rimangono elementi cruciali nella vita delle imprese, così come la ricerca della competitività è diventata ancora più affannosa, a causa dell’avanzata dei paesi emergenti. La coscienza del riscaldamento del pianeta ha reso il tema della sostenibilità ambientale ancora più impellente, così come la questione energetica si fa sempre più determinante nelle scelte geo-politiche dei governi. E l’occupazione? L’ultima bruciante crisi mondiale, partita proprio da quegli Stati Uniti che si volevano rincorrere, ha reso ancor più impervi gli obiettivi di Lisbona, poi completati a un vertice di Stoccolma. Certo, alcuni stati scandinavi ci sono arrivati a quel 70% di tasso di occupazione generali, 60% per le donne e 50% per i lavoratori anziani. Ma per l’Italia (come gli articoli di questa pagina testimoniano) e per la maggior parte dei paesi comunitari si resta lontani. E rattrista vedere quale abisso separa tuttora il Mezzogiorno dalle mete prefissate.
Così come può far amaramente sorridere pensare, alle soglie del 2010, all’Europa come l’area più competitiva del mondo. Del resto già nel 2005 si era rifondata la strategia di Lisbona, abbandonando l’aspirazione a obiettivi cogenti per lasciare spazio a più realistici piani nazionali. Emma Bonino, Giorgio La Malfa e ora il ministro delle Politiche comunitarie, Andrea Ronchi, si sono meritoriamente avvicendati nel ruolo di Mrs. o Mr. Lisbona per cercare di dare fiato alle strategie italiane.
Sbagliato sarebbe, del resto, dimenticare in soffitta la strategia di Lisbona come un vecchio polveroso sogno. Alla ricerca di competitività, formazione e sviluppo sostenibile resta legato il futuro dei nostri figli nell’economia globale. E, a volte, puntare al cielo serve per arrivare almeno al terzo piano, invece di sprofondare.
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