Una prova di maturità

Dalla Rassegna stampa

Se Obama si aspettava una corale adesione dei principali alleati atlantici alla sua richiesta di inviare rinforzi in Afghanistan, deve essere rimasto deluso. La Germania non prenderà decisioni prima della conferenza di Londra di fine gennaio. La Francia potrebbe aumentare, e non è sicuro, soltanto il numero degli addestratori. I soldati turchi continueranno a non partecipare a operazioni di combattimento.

Tanto più degno di nota diventa allora il ruolo di avanguardia che l’Italia (assieme alla Gran Bretagna e alla Spagna) ha deciso di assumere. Nelle attuali condizioni strategiche e finanziarie mille uomini in più entro la fine del 2010 non sono poca cosa, anche se lo sforzo sarà compensato da rientri di militari dal Libano e dai Balcani.

Le prime verifiche contabili avranno luogo tra oggi e lunedì alla Nato, ma se anche il segretario Rasmussen riuscisse a raggiungere l’obbiettivo dei 7.000 uomini in più (provenienti da una ventina di Paesi), la risposta italiana tanto diversa da quelle tedesca e francese lascerebbe il segno. Un segno che vuole essere politico, assai più che operativo.
L’Italia che non esita a dire «sì» a Obama intende evidentemente dare nuovo vigore all’amicizia con gli Usa. Un nuovo vigore assai opportuno se si considera che, al di là delle rassicurazioni diplomatiche, Washington preferirebbe vedere Roma più impegnata nel contenere la dipendenza europea dal gas russo e preferirebbe anche evitare troppi elogi a Lukashenko.

Ma soprattutto, e qui si pone la vera questione strategica, l’Italia del «sì» sceglie di cavalcare la scommessa di Barack Obama. Una scommessa audace, secondo alcuni persino temeraria. Gli Usa spediscono in Afghanistan la quasi totalità dei rinforzi chiesti dal generale McChrystal. Contro ogni regola militare e a fini di consenso interno, viene sin d’ora annunciato l’inizio del ritiro per il luglio 2011 (su questa scia il ministro Frattini ha indicato ieri nel 2013 la fine della «transizione» afghana, e dunque il disimpegno militare italiano e alleato). Obama, però, non ha specificato una data-limite per il rientro in patria delle altre truppe Usa. E sono comunque in molti a dubitare che le forze Isaf, anche irrobustite dai nuovi arrivi, riescano davvero a creare le condizioni per un ripiego onorevole con tanto di sereno passaggio di consegne all’esercito afghano.

E ancora, sarà davvero distrutta al Qaeda, Karzai farà la sua parte in maniera finalmente dignitosa (ieri ha detto di essere disposto a parlare anche con il mullah Omar), Olanda e Canada rivedranno le loro decisioni di ritiro rispettivamente nel 2010 e nel 2011, non risulterà destabilizzato il Pakistan con le sue atomiche, non ci metterà lo zampino il confinante Iran che continua a non stringere la mano tesa americana?

È una scommessa, appunto, ma al punto in cui era Obama non poteva fare altro. E anche l’Italia, nella misura del suo contributo, non ha voluto fare altro, aspettare, pensarci su, tirarsi indietro. Il messaggio è chiaro, ed è positivo: tra alleati, in avanti o indietro, ci si muove uniti.
 

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