Una morte da martire: l'ultima sfida di Gheddafi

Dalla Rassegna stampa

Nella guerra civile libica molte volte è stato evocato il martirio. Immediatamente dopo l'inizio della rivolta, Gheddafi dichiarò che sarebbe morto come martire per difendere la sua Libia. Quando pochi giorni fa il suo corpo è stato trasportato a Misurata, le urla che lo hanno accolto inneggiavano al sangue dei martiri ribelli. Da ultimo, il clan tribale di Gheddafi, ha chiesto ufficialmente che il corpo dei «martiri uccisi» (Gheddafi, familiari e suoi seguaci) sia loro consegnato per una degna sepoltura.

Il martirio è ora evocato anche da Gheddafi, dopo la sua morte, tramite le sue ultime volontà. Gheddafi chiede di essere seppellito come un martire, nelle vesti in cui fu ucciso e senza lavaggio rituale, perché il sangue del martire non è impuro. Il sangue del corpo martoriato è infatti prova della sua fede pura e lo deve seguire nella tomba, prima che egli salga subito in Paradiso. Seppellire un defunto senza lavaggio rituale e nel proprio sangue, come un martire, ha quindi un significato profondo, come misura della propria legittimità anche religiosa, davanti a Dio e alla comunità musulmana.

La richiesta di Gheddafi tocca un punto sensibile e vuole riaffermare la propria legittimità, anche dopo la morte. Vuole gettare in campo, più che la richiesta di un gesto di pietà, un'ulteriore sfida: lasciare il corpo insanguinato alle esequie dei familiari, perché ne facciano un martire, oppure lavarlo e ripulirlo, e poi restituirlo, senza che ciò possa accadere?

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