Una memoria che costruisce

Dalla Rassegna stampa

La condanna dell’eterno ritorno, che condiziona la vita pubblica italiana, sembra trovare una conferma nel ventennale della morte di Falcone e Borsellino. Il Paese appare sospeso tra un passato destinato a ripetersi e un futuro che non arriva. E in effetti qualche punto in comune con il biennio ’92-’93 c’è: una crisi economico- finanziaria, un governo tecnico sostenuto da partiti in grave difficoltà, un passaggio di stagione politica, e fiammate di violenza che il procuratore nazionale antimafia Grasso definisce non senza ragione «terrorismo puro». In realtà, non siamo tornati al punto di partenza. Come dice il presidente Napolitano, «siamo molto più forti di allora». Qualcosa in questi vent’anni è accaduto. Non soltanto i capimafia che parevano inafferrabili sono stati catturati e condannati, i loro patrimoni sequestrati, le loro terre affidate a giovani volontari. La società italiana, compresa quella del Sud, ha sviluppato anticorpi che combattono la patologia mafiosa. Le imprese siciliane hanno espresso un uomo come Ivan Lo Bello, che ha fatto della battaglia contro il racket e per la legalità il primo punto della sua agenda. Il movimento per la liberazione dal pizzo avanza sui passi coraggiosi di piccoli commercianti, artigiani, sacerdoti. Nei feudi della mafia, della camorra, della ’ndrangheta è cresciuta una generazione non più disposta ad accettare le angherie, le complicità, i silenzi. È la generazione colpita a Brindisi, qualunque sia la matrice dell’attentato. Adesso è importante che i Lo Bello, i commercianti antipizzo, i giovani come le amiche strette attorno alla bara bianca di Melissa Bassi non siano lasciati soli, come furono lasciati soli Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un dovere che ci riguarda e ci impegna; tanto quanto il dovere — ribadito ieri dal premier Monti — di fare luce definitiva sulle stragi del ’92. In questi vent’anni si è affermata un’idea-chiave: le mafie non sono un problema esclusivo del Sud. Sono una questione italiana, e non soltanto perché investono e corrompono pure al Nord. Anche nell’ora in cui i sentimenti più diffusi appaiono il malumore, la rabbia, lo sconforto, sta crescendo un’Italia che resiste e che riparte. «L’Italia che ce la fa», come l’ha definita il Corriere tre anni or sono. Un Paese perbene, impegnato a uscire dalla crisi ma che non esaurisce le sue energie nel lavoro in azienda e in famiglia, animato da uno spirito civico emerso nella straordinaria reazione popolare alla barbarie di Brindisi, e anche nelle ultime Amministrative, in cui — accanto a un preoccupante astensionismo e a esempi inaccettabili di violenza verbale — si sono viste nuove forme di partecipazione. Un Paese consapevole che la lotta alla mafia e la resistenza alla crisi sono un’azione comune, a prescindere dalle appartenenze geografiche e politiche. Per questo la testimonianza di Falcone e Borsellino chiama in causa tutti: la politica, che non può rinviare ancora le riforme necessarie, a cominciare dalla legge anticorruzione; noi stessi, che vent’anni fa accogliemmo la notizia della strage di Capaci con incredulità e sgomento; i nostri figli e nipoti, che non c’erano o non avevano l’età per ricordare. La memoria del sacrificio dei due magistrati simbolo della lotta alla mafia oggi è radicata, in un Paese cui la memoria talora ha fatto difetto. Non è un dato acquisito per sempre, è una base per conquistare la coscienza che il passato non si ripresenta mai allo stesso modo, e che il futuro sta arrivando. In quali forme, dipende innanzitutto da noi.] La condanna dell’eterno ritorno, che condiziona la vita pubblica italiana, sembra trovare una conferma nel ventennale della morte di Falcone e Borsellino. Il Paese appare sospeso tra un passato destinato a ripetersi e un futuro che non arriva. E in effetti qualche punto in comune con il biennio ’92-’93 c’è: una crisi economico- finanziaria, un governo tecnico sostenuto da partiti in grave difficoltà, un passaggio di stagione politica, e fiammate di violenza che il procuratore nazionale antimafia Grasso definisce non senza ragione «terrorismo puro».

In realtà, non siamo tornati al punto di partenza. Come dice il presidente Napolitano, «siamo molto più forti di allora». Qualcosa in questi vent’anni è accaduto. Non soltanto i capimafia che parevano inafferrabili sono stati catturati e condannati, i loro patrimoni sequestrati, le loro terre affidate a giovani volontari. La società italiana, compresa quella del Sud, ha sviluppato anticorpi che combattono la patologia mafiosa. Le imprese siciliane hanno espresso un uomo come Ivan Lo Bello, che ha fatto della battaglia contro il racket e per la legalità il primo punto della sua agenda. Il movimento per la liberazione dal pizzo avanza sui passi coraggiosi di piccoli commercianti, artigiani, sacerdoti. Nei feudi della mafia, della camorra, della ’ndrangheta è cresciuta una generazione non più disposta ad accettare le angherie, le complicità, i silenzi. È la generazione colpita a Brindisi, qualunque sia la matrice dell’attentato. Adesso è importante che i Lo Bello, i commercianti antipizzo, i giovani come le amiche strette attorno alla bara bianca di Melissa Bassi non siano lasciati soli, come furono lasciati soli Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Un dovere che ci riguarda e ci impegna; tanto quanto il dovere — ribadito ieri dal premier Monti — di fare luce definitiva sulle stragi del ’92.

In questi vent’anni si è affermata un’idea-chiave: le mafie non sono un problema esclusivo del Sud. Sono una questione italiana, e non soltanto perché investono e corrompono pure al Nord. Anche nell’ora in cui i sentimenti più diffusi appaiono il malumore, la rabbia, lo sconforto, sta crescendo un’Italia che resiste e che riparte. «L’Italia che ce la fa», come l’ha definita il Corriere tre anni or sono. Un Paese perbene, impegnato a uscire dalla crisi ma che non esaurisce le sue energie nel lavoro in azienda e in famiglia, animato da uno spirito civico emerso nella straordinaria reazione popolare alla barbarie di Brindisi, e anche nelle ultime Amministrative, in cui — accanto a un preoccupante astensionismo e a esempi inaccettabili di violenza verbale — si sono viste nuove forme di partecipazione. Un Paese consapevole che la lotta alla mafia e la resistenza alla crisi sono un’azione comune, a prescindere dalle appartenenze geografiche e politiche. Per questo la testimonianza di Falcone e Borsellino chiama in causa tutti: la politica, che non può rinviare ancora le riforme necessarie, a cominciare dalla legge anticorruzione; noi stessi, che vent’anni fa accogliemmo la notizia della strage di Capaci con incredulità e sgomento; i nostri figli e nipoti, che non c’erano o non avevano l’età per ricordare. La memoria del sacrificio dei due magistrati simbolo della lotta alla mafia oggi è radicata, in un Paese cui la memoria talora ha fatto difetto. Non è un dato acquisito per sempre, è una base per conquistare la coscienza che il passato non si ripresenta mai allo stesso modo, e che il futuro sta arrivando. In quali forme, dipende innanzitutto da noi.

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