Una maturità da ritrovare

Dalla Rassegna stampa

Per giudizio di tutti gli osservatori e secondo tutti i sondaggi la credibilità dei partiti politici italiani è oggi vicina allo zero. Eppure, forse illudendosi che a un tratto ogni cosa possa tornare miracolosamente come prima, nessuno di essi si chiede veramente perché mai tutto ciò è accaduto. Perché mai, quando il Paese si è trovato con l'acqua alla gola, quando è stata necessaria un'azione politica urgente e incisiva, si è dovuto ricorrere non a loro ma ad altri. E i partiti sono stati messi da parte.

È proprio tale mancanza di analisi autocritica, a me pare, la causa prima dell'incertezza, dei continui tentennamenti, con cui i partiti suddetti stanno affrontando quell'unico tema, ma davvero cruciale, ormai rimasto nel loro dominio: e cioè la riforma della legge elettorale e della parte della Costituzione concernente l'organizzazione dei poteri pubblici. I partiti fanno fatica a capire la necessità di procedere a una tale riforma, e come farlo, perché sembrano non avere ancora chiaro che cos'è che li ha portati al punto in cui sono, che cos'è che non è andato per il verso giusto nell'esperienza politica che li ha visti protagonisti. Cioè nell'esperienza della democrazia italiana. Eppure è solo facendo chiarezza su questo passato che essi possono sperare di avere un futuro.

Ora, se è vero che nel nostro Paese proprio la presenza di una democrazia dei partiti ha avuto l'effetto di promuovere un alto grado di pluralismo, è anche vero che la medesima assoluta centralità dei partiti è stata all'origine di un'intermediazione politica pervasiva e generalizzata. La quale si è tramutata, durante la Prima Repubblica, in una formidabile spinta alla corporativizzazione della società italiana, nonché alla creazione di crescenti deficit di bilancio trasformatisi con il tempo in un crescente debito pubblico. Una molteplicità di gruppi professionali, di sindacati, di gruppi d'interesse (e talora di vero e proprio malaffare), innanzi tutto condizionando in mille modi la scelta dei candidati e la loro elezione, e poi stabilendo rapporti privilegiati con l'alta burocrazia e i gabinetti ministeriali, si sono impadroniti di fatto di una parte significativa del processo legislativo piegandolo ai propri voleri. La sostanziale impotenza dell'esecutivo espressamente voluta dalla Costituzione, unitamente alla frequente scarsa capacità dei ministri di controllare l'operato dell'amministrazione, hanno fatto il resto. È accaduto così che in Italia l'esperienza democratica con al centro i partiti si sia trasformata in vera e propria partitocrazia, al tempo stesso sempre più alimentando un processo patologico di frantumazione lobbistico-corporativa.

Che cosa hanno fatto i partiti per porre rimedio a tutto questo? Praticamente nulla. Si può anzi dire che per moltissimo tempo (in sostanza fino ad oggi), tranne la pugnace quanto inascoltata pattuglia dei Radicali, essi abbiano addirittura negato i fatti e voltato la testa dall'altra parte. Ora però non è più possibile. Ora, se desiderano riacquistare un ruolo effettivo nella vita italiana, stanno davanti a loro due compiti ineludibili: quello di recuperare la dimensione nazional-statale (di cui ho già detto in un mio precedente articolo: Corriere, 31 gennaio scorso) e quello di ripensare a fondo, spregiudicatamente, la propria intera esperienza nella democrazia italiana. Soprattutto di ripensare in che modo sistemi elettorali inadeguati e una Costituzione inattuale hanno influito su quell'esperienza contribuendo ad avviarla al fallimento odierno.

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