Una lezione di umiltà

Dalla Rassegna stampa

L´amaro anniversario delle nozze fra il presidente Obama e l´America, non è la fine, e neppure l´inizio della fine, per la sua parabola politica. Segnala, con due sonore sconfitte in elezioni che noi diremmo «regionali», in New Jersey e in Virginia, il ritorno dell´America alla normalità e alla continuità della propria storia. La rivincita repubblicana, ma soprattutto la rivincita dell´istinto di una nazione che, dopo le infatuazioni passeggere o il panico del momento, sempre rifiuta la tentazione del cesarismo. E punisce gli uomini della provvidenza, siano essi conservatori o progressisti, risollevando gli sconfitti e castigando i trionfatori di ieri.
Dopo avere sedotto, Obama ha fatto paura, verificando per i suoi elettori che questa volta lo hanno tradito l´antico proverbio che invita a fare attenzione a esprimere desideri, nel timore che si possano avverare. Ha fatto troppo o troppo poco, secondo le opposte delusioni e paure. E il meccanismo autoregolatore del bipartitismo perfetto e assimilato è scattato muovendosi laddove sempre riposa, nel potere locale. Lo ha fatto anche questa volta, grazie allo slancio di orgoglio del partito Repubblicano umiliato dalla presidenza Bush e castigato lo scorso novembre, e all´astensione di quel «movimento obamista» che questa volta è rimasto a casa a scontare l´eterna pena autoinflitta di tutti i «movimenti», quella di pagare con grandi delusioni le proprie eccessive illusioni.
Ben lubrificato dalla separazione autentica dei poteri, dal ferreo controllo della magistratura costituzionale sulle sbandate autocratiche dei presidenti e dal federalismo reale, il giroscopio della politica americana tende sempre a tornare in equilibrio, nella convinzione profonda che un potere diviso faccia meno danni di una falange compatta che si muova all´unisono dietro il proprio profeta. Beneficia alternativamente le due ali del bipartitismo, per rimettere in linea di volo il grande aereo americano. Il partito oggi di opposizione, quel Repubblicano che aveva pagato il fallimento della presidenza Bush, il collasso finanziario che aveva coronato i suoi otto anni di regno nel settembre del 2008, la generale sensazione di incompetenza culminata nel disastro di New Orleans e la scelta scriteriata di candidati come la impresentabile cacciatrice di alci, Sarah Palin, si è ricompattato per sopravvivere ai suoi stessi errori. Mentre la maggioranza che aveva raccolto il malessere collettivo e lo aveva riversato sulla figura affascinante e inedita di Barack Hussein Obama, caricandolo di speranze, ma soprattutto di proteste contro il passato, si è astenuta. La partecipazione al voto, in Virigina e in New Jersey è stata la più bassa registrata dagli anni ‘60, quelli dell´»antipolitica». Come vuole la regola della democrazia, ha vinto chi è andato a votare e ha perso chi non si è presentato.
Ne ha, naturalmente, approfittato quel partito di minoranza, il Repubblicano, che doveva dimostrare di essere sopravvissuto all´uragano Bush e al fenomeno Obama. Ha vinto per avere saputo respingere le sirene dell´estremismo fanatico, dunque per avere eliminato quella spinta a votare contro che aveva motivato tanti sostenitori di Barack. Ha tenuto a freno i predicatori allucinati della «Kulturkampf», delle farneticazioni valoriali e cristianiste contro il presidente alieno, troppo diverso, «socialista», «comunista», «anti americano» o nazista, secondo i diversi momenti di demenza. Ha scelto candidati che hanno puntato sullo snodo più vulnerabile della coalizione che aveva eletto Obama: il centro, l´elettorato indipendente, l´ala meno militante del «movimento» obamiano. La prova che queste elezioni straordinarie segnalano il ritorno alla normalità, dopo il decennio di «eccezionalità» seguito agli scandali clintoniani, all´aggressione del terrorismo, alla guerra, al panico finanziario, sta in altre due elezioni. Quella per il sindaco di New York, dove un altro «uomo della Provvidenza» il miliardario Bloomberg ha battuto il concorrente democratico con un distacco molto inferiore al plebiscito previsto. E quella per un seggio vacante alla Camera dei Rappresentanti nello stato di New York dove la destra estrema ha imposto un proprio campione ed è stato sconfitta, in un collegio dove da sempre i repubblicani avevano dominato.
La lezione politica che questa giornata elettorale ha insegnato a Obama e ai repubblicani è quindi la classica lezione che una democrazia vitale e matura impartisce ai propri allievi. Se il partito repubblicano vorrà trasformare questo scatto di vitalità e di orgoglio, questi segnali in una rivincita alle prossime elezioni parlamentari del 2010 dovrà abbandonare le «lunatic fringes», le minoranze rumorose di pazzarielli e predicatori da teleschermo e da talk show radiofonici per tornare a essere il partito dei moderati, di fatto e non di nome. Se Obama e i democratici vorranno difendere quella coalizione ricaduta in sonno appena un anno dopo, dovranno scendere dall´altare dell´incoronazione celebrata il 4 novembre del 2008 e rassegnarsi all´umiltà delle cose quotidiane, le tasse, il traffico, il lavoro, la casa, una riforma dell´assistenza sanitaria che soccorra, senza spaventare. La prima legge della storia politica americana resta in vigore. Si possono vincere elezioni partendo dalle ali più estreme ma si deve governare sempre al centro.

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