Un vero peccato

Dalla Rassegna stampa

La dottrina dell’indulgenza è peculiare della dottrina cattolica, mentre non è praticata nella riforma protestante. Ne conosciamo qualcosa perché di essa si fece largo abuso dal XIV al XVI secolo, quando alle rigorose penitenze imposte precedentemente al peccatore fu sostituita la pratica del risarcimento finanziario. La chiesa beneficiò di questo mutamento, le somme raccolte vennero utilizzate per la costruzione di chiese e opere di apostolato o di carità, ma la pratica degenerò in un vero e proprio mercato, con tanto di tariffe che commisuravano il versamento all’entità della colpa; sembra tra l’altro che sia stata utilizzata su larga scala per raccogliere i fondi necessari alla costruzione della basilica di San Pietro. Sebbene all’inizio non fosse contrario, Lutero alla fine la denunciò, facendo di questa condanna uno dei pilastri più efficaci della sua predicazione. La mia conoscenza della dottrina si limitava a queste poche cose.
 
 Ai nostri giorni, ovviamente, la dottrina delle indulgenze ha perso quel carattere mondano, e penso sia praticata solo sul terreno originario, quello spirituale. Essa non ha nulla a che fare con certe odierne situazioni, ma a me è tornata in mente pensando al comportamento della chiesa nella vicenda Berlusconi. Prima con una presa di posizione dell’Osservatore Romano che ha recepito (quasi a farsene scudo) un comunicato del Quirinale in cui si manifestavano preoccupazioni per il disagio popolare, poi con una rampogna del cardinale Bertone, quindi con un ammonimento dello stesso Pontefice e infine con un più articolato dissenso del cardinal Bagnasco all’assemblea dei vescovi italiani, la chiesa ha fatto intendere di non approvare certi comportamenti privati di un uomo che riveste cariche pubbliche delicatissime: chi guida un paese deve dare un esempio di moralità. Tra durezza ed equilibri(sm)o, la condanna della chiesa ha fatto ovviamente scalpore e se ne discuterà ancora, in tutte le salse. Ci sarebbe quindi poco da aggiungere di originale. Oso intervenire anch’io, solo per dire che ho la sensazione che la presa di posizione della chiesa sia stata inadeguata nei tempi. Penso che, data l’autorevolezza morale cui essa aspira, la chiesa di Roma avrebbe dovuto parlare ben prima di quando lo ha fatto, e si sia invece mossa solo quando ha capito che non poteva più tacere dinanzi al propagarsi dello scandalo mediatico, ma probabilmente anche perché preoccupata dal montare di una forte indignazione nel cuore della grande massa dei fedeli. Mi pare insomma che, prima che dal risentimento della moralità, la chiesa sia stata sollecitata da una preoccupazione, vorrei dire, politica. Si è elogiato “l’equilibrio” dei vescovi. Appunto.
 
 So bene che una struttura così complessa non può muoversi troppo velocemente; ma questi ritardi, queste preoccupazioni e prudenze hanno in sé, nel loro stesso manifestarsi, qualcosa che non può non entrare in conflitto con il senso comune che per sua natura, sui temi etici e della moralità, si aspetta valutazioni non necessariamente impulsive ma almeno tempestive: se, per il codice penale, la pena deve essere rapida e certa, il comune credente, o il laico, non può non pensare che anche la punizione dell’offesa inferta dalla colpa etica, morale, debba avere la stessa immediatezza e soprattutto certezza. Quanto viene a essere imputato al presidente del Consiglio ha di sicuro un carattere eticamente riprovevole, e tuttavia si ha l’impressione che la risposta della chiesa abbia obbedito a una valutazione contingente, diciamo pure diplomatica. Mi pare insomma che la vicenda abbia mostrato l’inadeguatezza del rapporto tra chiesa istituzione e chiesa "interiore". La chiesa romana è ancora organizzata secondo il modello costantiniano. Sono un attento e ammirato osservatore di quella svolta che ha portato, nel corso dei secoli, imponenti conseguenze sui piani più diversi. Ma questo non mi esime dall’osservare come l’antico formidabile meccanismo non sia adeguato ai nostri tempi. Visibilmente, esso è divenuto un, sistema di potere dalle fortissime suggestioni mondane (come osservò, in più occasioni, un cattolico non certo imputabile di eresia o di velleità moderniste, Gianni Baget Bozzo). La coscienza dell’uomo contemporaneo è labile ma anche consapevole, e le resta sempre più misteriosa e incomprensibile la dimensione terrena costantiniana della chiesa-istituzione. Questa dimensione non può più richiamarsi a un consenso generalizzato, non può esigere un’obbedienza tanto più tacita quanto più, necessariamente, formale. La saldatura tra chiesa-istituzione e coscienza comune non è più un dato di fatto incontrovertibile, unanimemente accettato. La coscienza comune, a ragione o a torto, pretende dall’istituzione religiosa una "interiorità" maggiore se non assoluta, una separazione netta tra la chiesa e, per dire, uno stato della Città del Vaticano che emette le sue sentenze in regime di trattato concordatario e attraverso il segretario di stato. Una questione spinosa, che però immagino sia presente nelle preoccupazioni della gerarchia romana.

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