Un vero negoziato come per i sequestri

L’obiettivo è stato raggiunto, onostante le smentite ufficiali: l’ospedale di Lashkar Gah rimane chiuso. Nega il governo italiano di aver corrisposto contropartite agli afghani per ottenere il rilascio degli italiani di Emergency. Nega che fosse proprio questa la condizione posta per dichiararli «non colpevoli». E così segue un copione generalmente utilizzato dopo la liberazione degli ostaggi sequestrati dai terroristi, anche quando il patto segreto prevedeva la consegna di valigette piene di dollari. Perché di fatto proprio questo è accaduto quando Marco Garatti, Matteo Dell’Aira e Matteo Pagani sono stati catturati all’interno della struttura. E per farli scarcerare intelligence e diplomazia hanno dovuto avviare un vero negoziato che ha poi raggiunto la svolta quando si è avuto un contatto diretto con il presidente Hamid Karzai, sollecitato dalla lettera inviata da Silvio Berlusconi.
È chiara la presa di posizione dell’organizzazione umanitaria che ci tiene a ribadire come «il rilascio dei nostri operatori non è dipeso da alcun accordo, ma dal mero accertamento dei fatti». In realtà l’innocenza dei tre non è mai stata in discussione, ma da subito è apparso evidente come l’arresto disposto dai servizi segreti afghani fosse una ritorsione proprio per l’attività che Emergency svolge in quell’area a sud del Paese, dove non ci sono altre strutture occidentali. Un’insofferenza più volte manifestata - sia pur informalmente - anche dai vertici militari della Gran Bretagna che di quella zona detengono il controllo.
La struttura è ritenuta fondamentale dalla popolazione, ma osteggiata dalle autorità locali. Tanto che non era apparsa affatto spontanea quella manifestazione di protesta organizzata di fronte all’ospedale poche ore dopo il ritrovamento di armi ed esplosivi nel magazzino, con i cittadini che ne sollecitavano l’immediata chiusura. E non sembra casuale come già la scorsa settimana, quando l’ambasciatore italiano a Kabul ha avviato la mediazione con il governo, è stato disposto il trasferimento nella capitale di tutto il personale sanitario che fino a quel momento operava a Lashkar Gah.
Emergency non sembra comunque disposta ad arrendersi tanto che tocca a Cecilia Strada, dopo aver evidenziato come «noi non siamo parte di alcun accordo», sottolineare come «sarà valutato insieme ai nostri operatori, alle autorità afghane e al ministero della Salute quali siano i modi e i termini della prosecuzione del nostro intervento nel sud dell’Afghanistan».
Al momento la riapertura non appare possibile visto che lo stesso ministro degli Esteri Franco Frattini ha specificato domenica, subito dopo il rilascio dei tre, come fossero state «avviate le procedure amministrative per verificare la sicurezza della struttura». Un modo neanche troppo velato per confermare - al di là delle posizioni più o meno ufficiali prese anche dalle autorità afghane - l’insofferenza per la presenza della Ong.
Subito dopo l’arrivo in Italia Garatti, Dell’Aira e Pagani saranno interrogati come testimoni dal procuratore aggiunto Pietro Saviotti che ha delegato ai carabinieri del Ros il compito di svolgere accertamenti, non escludendo una missione a Kabul per verificare anche l’ipotesi del complotto ai danni dell’organizzazione.
Un’ipotesi che con il trascorrere delle ore perde comunque consistenza. L’obiettivo comune sembra chiudere il caso il più in fretta possibile, anche per evitare nuove polemiche come quella nata dopo la scelta di rientrare in Italia con un aereo di linea, visto che ormai si trattava di persone libere, completamente scagionate dalla dichiarazione del capo dei servizi segreti locali costretto a una clamorosa marcia indietro dopo le false notizie veicolate per una settimana.
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