Un «aiuto» da Tripoli: Bossi dice quello che altri pensano

Dalla Rassegna stampa

Bisogna riconoscere a Umberto Bossi il merito di affermare a voce alta quello che tanti nella maggioranza pensano, ma non hanno voglia di dire. «Il rischio immigrazione aiuta Berlusconi e aiuta noi»: parole del leader leghista nel momento in cui la linea ufficiale del governo consiste nell'enfatizzare il pericolo, peraltro reale, dei clandestini in arrivo dalla Libia.
 
Bossi sa bene quanto il tema susciti attenzione e apprensione presso l'elettorato leghista. Se poi lo si mescola alla paura che il fondamentalismo islamico s'installi a poche decine di miglia marine dalle nostre coste, ecco che la crisi libica può risolversi in un vantaggio, mediatico ed elettorale, del centrodestra. Spregiudicato e un po' cinico, Bossi non ha perso tempo per sfruttare questa carta.
 
Ma nemmeno Berlusconi si è tirato indietro. I suoi richiami all'integralismo in grado di prendere campo nel dopo Gheddafi non sono casuali. In effetti si tratta di una preoccupazione diffusa in molte cancellerie occidentali; ma nessun altro capo di governo vi ha fatto cenno in forme così esplicite. S'intuisce il motivo: evocare oggi il pericolo islamico, con la rivolta in corso e la sorte del dittatore in bilico, equivale a offrire una sponda, senza dubbio involontaria, a un regime impegnato in una feroce repressione.

C'è anche un secondo aspetto, sul quale è diffuso lo scetticismo. Molti dubitano che l'Italia abbia saputo costruire in questi anni (sia con Berlusconi sia coi suoi predecessori) qualche rapporto con esponenti libici al di fuori della famiglia Gheddafi. È un punto cruciale in vista del «dopo», quando occorrerà usare le armi della politica e della diplomazia, oltre che del buonsenso, per tutelare il complesso degli interessi italiani.

Nella comunità internazionale è quasi ovvio che si tenterà di addossare al governo italiano la lunga vicinanza all'uomo di Tripoli. Il che vuol dire che la guerra civile in Libia, con i suoi esiti oscuri, costituisce realmente un banco di prova di eccezionale rilevanza per la politica estera italiana. Come tale andrebbe affrontato attraverso uno slancio di coesione nazionale. Visto che, come ricordava ieri sera Emma Bonino, la cedevolezza verso Gheddafi è stata «bipartisan» per anni, fino al trattato italo-libico votato senza riserve in Parlamento da un'ampia maggioranza trasversale.
 
Tutto questo riguarda il medio termine.

A breve tuttavia c'è questo ammiccamento di Bossi per una crisi che disorienta l'opinione pubblica e quindi dà un vantaggio apparente al governo. Ciò non significa che la Lega pensi in questo frangente alle elezioni anticipate. La rotta è sempre volta verso il «sì» del Parlamento al federalismo fiscale: oltre il quale è quasi sicuro che non ci saranno i tempi tecnici per votare in primavera.
Il punto è che il mondo del Carroccio è percorso da un malessere crescente. Lo stesso Bossi ha dovuto render noto che la Lega è contraria all'immunità parlamentare (salvo che per Berlusconi). E ora che la legge sul processo breve andrà in aula, non sarà facile per il partito nordista destreggiarsi fra la lealtà a Berlusconi e gli umori della base. Per quanto rimosso, il problema del rapporto con il presidente del Consiglio si ripresenta puntuale.
 
Ecco perché il dramma della Libia viene visto da Bossi come un utile diversivo. Quasi un ricostituente politico. E il vecchio leader lo ammette senza l'ipocrisia che è normale in questi casi.

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