Tutti sani e perfetti, che tragica illusione Il delitto non e libertà

Dalla Rassegna stampa

Lo spot colpisce duro ma la voce del malato terminale è calma e convinta. Segno di una decisione masticata a lungo e dunque irrevocabile. Non indugia allo spettacolare né fa leva sugli effetti speciali per convincere che ammazzarsi è giusto e civile. La réclame, bocciata in Australia e ripescata dai radicali (loro non buttano mai via niente, tranne i feti) si offre a un pubblico adulto e maturo, criticamente formato a tolleranza e impassibilità cosmica: quelli che non muoverebbero un dito neppure se vedessero un disgraziato pronto a saltare dal ponte. Si capisce che è fattura di professionisti esperti. Il linguaggio è semplice e pacato: sembra quasi che il tizio in procinto di farla finita vi stia solo proponendo di portare i risparmi in una banca che offre tassi imbattibili. Epperò lo spot merita d’essere visto perché evoca senza pietismi le questioni fondamentali e ultime. Il messaggio è scarno e lo è anche l’attore protagonista: veste i pantaloni di un pigiama a righe, una t-shirt bianca ed è quasi rasato a zero. La camera è quella di un ospedale ma potrebbe essere anche la cella di un carcere dove sta scontando il suo fine pena mai. Non c’è dramma: tutto è avvolto da una razionalità fredda, scientifica, ordinata. L’esistenza, rivendica con orgoglio il candidato suicida, è questione di scelte e in questo modo ci giochiamo il futuro. Beh, Toni dice giusto: «Io ho scelto di fare l’università, ingegneria. Ho scelto poi di sposarmi e di avere due figli splendidi, ho scelto che macchine guidare, ho scelto questa maglietta, questo taglio di capelli». Ok, come non essere d’accordo con questo senso della vita che non solo è buono ma è certamente tra i migliori? Ma il brutto, anzi l’orribile, comincia adesso. Da qui in avanti la réclame eutanasica si mostra per quella che è: un rifiuto della libertà, del suo lato più oscuro e crudele, ma non per questo meno vero. L’altra faccia delle scelte consapevoli e creative. «Quello che invece non ho scelto è di diventare un malato terminale (...) non ho scelto che la mia famiglia debba vivere questo inferno con me». Ovvio: nessuno sceglie di morire di cancro o sotto le ruote di un Tir. Ma si badi: neppure siamo stati noi a decidere di nascere, né a indicare madre e padre né a programmare l’avvenire di figli e amici. Perché la serie delle opzioni in uso non è infinita e basta poco per interromperla: una malattia, un incidente o solo la troppa vecchiaia che ci condannano all’impossibilità di fare, produrre, organizzare. Dolce morte: solo questo è concesso all’uomo? O non occorrerà invece che sulla finitezza, sul mistero di una libertà imperfetta, si facciano finalmente i nostri conti? Magari per scoprire che non sappiamo contare. E poi: si può davvero mettere ai voti e regolare per legge l’uscita dalla vita? La società dei sani e perfetti, dei felici e contenti è solo una tragica illusione, un inganno che ha già desertificato la storia. Solo la malafede politica può osare riproporlo, mascherando un delitto come espressione nobilissima ed estrema della libertà. No: lo spot eutanasico e quell’attore, improbabile dead man walking sotto la regia di Pannella, sono soltanto un irragionevole invito ad alzare bandiera bianca e a soffocare l’urlo della nostra umanità ferita. Depongono il bisturi, staccano la spina che tiene in vita il paziente e buttano i loro guanti bianchi nel cesto dei rifiuti speciali. Fermiamoli.

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