È il turno dell'Arabia Saudita?

Dalla Rassegna stampa

Il Riformista, venerdì 4 marzo
 
I timori di contagio della crisi all'Arabia Saudita crescono in maniera inversamente proporzionale al suo indice principale di Borsa, capace di perdere oltre il 12 per cento in due giorni e trascinare con sé anche la principale piazza mediorientale, Dubai, scivolata ai minimi da sette anni a questa parte. La conferma dell'arresto di un chierico sciita nella provincia orientale del paese, detonatore della svendita di due giorni fa e del crollo dell'indice Tadawul, sta infatti innescando timori sempre maggiori sui mercati riguardo i rischi di instabilità e possibili rivolte confessionali nell'area, strategica a livello petrolifero globale poiché ospita il più grande sito estrattivo del paese, il Ghawar.

«Disordini in quella regione possono avere conseguenze fatali per il mondo intero. Il crollo della Borsa saudita può essere interpretato come un segnale che la fiducia sta sparendo», si legge in un report di ieri della Tbc Energy. Anche perché le tensioni nello Stato-cerniera del Bahrain stanno salendo a dismisura, nonostante la famiglia reale abbia teso un ramoscello d'ulivo all'opposizione lasciando rientrare in patria dall'esilio il leader del partito radicale Haq, Hassan Mushaima, il quale, però, non ha perso tempo nel dichiarare che «coloro i quali protestano hanno tutto il diritto di chiedere aiuto all'Iran se le unità militari saudite interferiranno con la lotta», riferendosi al passaggio di tank sauditi dalla frontiera martedì scorso.

 
Insomma, si cerca il casus belli per coinvolgere l'Iran e far partire la protesta anche nel regno che sembrava intoccabile. «Questa storia non è credibile, penso che fossero carri armati sauditi che tornavano dal Kuwait», dichiara Firas Abi Ali, esperto per l'area del Golfo di Exclusive Analysis. Ma tant'è, la miccia appare innescata e potrebbe detonare l'11 marzo, giorno in cui è stato indetto dai rivoltosi sauditi il "giorno della collera" e data prima della quale la tensione generale potrebbe essere aumentata ulteriormente, visto che il contagio da ieri coinvolgeva anche l'Iran (dove la polizia ha sparato sui manifestanti) lo Yemen, l'Oman, il Sudan e l'Algeria.
In compenso, l'impasse innescata dal braccio di ferro tra Gheddafi e i rivoltosi ha visto la Libia tagliare le consegne di petrolio di un milione di barili al giorno, facendo confermare all'International Energy Agency che a rimpiazzare lo "sweet crude" libico è stato finora proprio il petrolio saudita. Ma sempre più analisti si dicono certi che Riad abbia aumentato al massimo la produzione, nove milioni di barili al giorno, prima della crisi libica, giungendo alla capacità massima: un ulteriore calo in Libia potrebbe quindi mettere in crisi giganti sauditi come Aramco e l'intero approvvigionamento mondiale. A preoccupare è proprio la possibilità di una crisi prolungata in Libia, visto che le aziende straniere hanno bloccato la produzione e rimpatriato gli staff, decisioni che potrebbero vederle riluttanti verso un'ipotesi di ritorno fino a una completa stabilizzazione della situazione.

Helima Croft di Barclays Capital dipinge così il quadro: «I ribelli a Bengasi hanno già dichiarato di voler investigare i contratti petroliferi e riservarsi il diritto i rinegoziare i termini degli accordi. È chiaro che, in un quadro simile, le aziende straniere non investiranno molti soldi fino a quando gli equilibri tribali non saranno chiariti». Già oggi, un piano di investimento congiunto da 10 miliardi di dollari da parte di BP, Shell, Oasis e altre aziende petrolifere nei prossimi tre anni è a forte rischio, per usare un eufemismo. A confermare i rischi ci ha pensato ieri Fatih Birol, capo eco- nomista dell'International Energy Agency, secondo cui «gli investimenti in giacimenti petroliferi in Medio Oriente potrebbero essere ritardati di anni, l'epoca del petrolio a basso costo è finita».

Però, paradossi del mercato, questa instabilità che minaccia le politiche energetiche e affossa le Borse, fa la gioia di altri investitori. In Egitto, infatti, senza apparente motivo la Borsa è chiusa da un mese e la riapertura è stata ancora posticipata a lunedì prossimo: perché? Il dubbio è che qualcuno voglia sfruttare il più a lungo possibile le grandi occasioni offerte dal Market Vectors Egypt (Egpt), fondo attivissimo proprio grazie alla chiusura della Borsa del Cairo. Prima dello scoppio delle proteste, l'Egpt gestiva circa 12 milioni di dollari e trattava una media di 7.500 azioni al giorno, ora viaggia a un livello di azioni passate di mano di oltre un milione, tra cui i gioielli petroliferi, auriferi, delle costruzioni e delle telecomunicazioni del paese. Con le contrattazioni ufficiali sospese, i prezzi usati per calcolare il Nav (Net Asset Value, il valore effettivo di un fondo Etf, calcolato attraverso il valore del paniere delle azioni che replicano l'indice sottostante più i dividendi) sono ormai vecchi di settimane e quindi non tengono conto e non riflettono i significativi sviluppi concretizzatisi fino a oggi. Insomma, chi comprava o vendeva l'Egpt altro non faceva che scommettere su quale livello aprirà il mercato quando le contrattazioni regolamentate finalmente saranno riprese: e visto che l'Egpt ha contrattato a premio e non a sconto, molti investitori credevano che la situazione sarebbe migliorata notevolmente nell'arco di sette, otto giorni. Probabilmente non è andata così o non abbastanza per il loro appetito, meglio che la Borsa resti chiusa ancora un po'.

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