Turchia in rivolta, ultimatum di Erdogan

Dalla Rassegna stampa

Il vento di "primavera" che per il decimo giorno consecutivo sale da piazza Taksim, a Istanbul, comincia a dar fastidio al premier islamico-moderato Recip Tayyip Erdogan che, rientrato ieri ad Ankara dal Nord-Africa, ha voluto far sapere ai dimostranti che «la pazienza del governo ha un limite»; e, rivolgendosi all’aeroporto di Ankara a migliaia di militanti del suo partito, che «mancano sette mesi alle elezioni locali. Voglio che diate a questa gente una prima lezione con un voto democratico alle urne».

La tregua tra manifestanti e polizia ottenuta giovedì scorso dal presidente Gul si è infranta nella notte di ieri nella vie di Ankara, teatro di cariche delle forze antisommossa che ha disperso con brutalità, lacrimogeni e cannoni ad acqua circa diecimila manifestanti che si avvicinavano pacificamente agli uffici di Erdogan. Scontri, con arresti e feriti, ripresi anche ieri sera. La combinazione degli scontri notturni nella capitale e delle parole minacciose di Erdogan ha fatto da detonatore a una domenica di grandissima mobilitazione in molte città.

Ma è stato il vento di protesta che ancora una volta si è levato da piazza Taksim e dintorni a far capire che la pazienza dei dimostranti ha invece un bello spessore. Centinaia di migliaia di persone si sono riversate per tutto il giorno nel luogo simbolo della contestazione. Mai, così tante come ieri. L’onda ribelle dei primi giorni è andata via via gonfiandosi grazie all’adesione prima dei tifosi delle grandi squadre di calcio turche, mai accomunate in passato, poi di alcune sigle sindacali. Inoltre i manifestanti, la maggior parte giovanissimi - molti dei quali prima non avevano mai partecipato a una manifestazione - avrebbero cominciato a sviluppare tecniche di resistenza passiva e a tessere una buona organizzazione di vigilanza, assistenza, solidarietà, 24 ore su 24. Sloggiarli e rimandarli a casa, quindi, sembra diventare giorno dopo giorno, impresa più difficile. Da qua il rischio di una deriva molto più sanguinosa - finora 3 manifestanti morti e qualche migliaio di feriti - se Erdogan dovesse decidere che la pazienza è finita.

Ieri sulla crisi turca è intervenuto il ministro degli Esteri Emma Bonino seconda la quale le dichiarazioni di Erdogan sono «un segno di debolezza, soprattutto laddove denuncia un complotto internazionale». Nei giorni scorsi alcuni giornali governativi avevano ipotizzato che Siria e/o Iran potessero fare da cric alla rivolta. Definendosi «amica della Turchia» Bonino ha poi auspicato che il premier accetti l’appello alla moderazione e non insista «su uno stile di governo autoritario degli ultimi anni». Sono oltre 10 anni che Erdogan guida la Turchia, un paese, sotto di lui, protagonista di una fantastica galoppata economica. Negli ultimi anni però Erdogan ha favorito anche una progressiva islamizzazione del Paese. Normale per un Paese di circa 80 milioni di abitanti di cui il 99% musulmani (in maggioranza sunniti), un po’ meno per un Paese che l’Occidente ha "assoldato", anche nella Nato, soprattutto per il profilo laico regalatogli dal fondatore della Repubblica, Mustafa Kemal Ataturk. Quindici anni fa, prima di imboccare la strada di un Islam moderato, Erdogan finì in carcere per aver declamato pubblicamente i versi del poeta Ziya Gókalp: «Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati...». Se la pazienza deve finire per riprendere da qui, povera Turchia.

 

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