La Tunisia ribelle torna in piazza contro il governo

Dalla Rassegna stampa

Ai vinti appartiene un poco sempre l’avvenire, specialmente quando il vincitore abusa della vittoria. È questa la forza delle migliaia di tunisini che, riuniti nella «carovana della libertà», ancora una volta, con l’orgoglio gli spregi le intumescenze polemiche degli ostinati, continuano a manifestare perché «non gli rubino la rivoluzione»: «Un mese due mesi tre mesi - promettevano ieri - non importa, saremo qui finché il regime non sarà davvero caduto».
 
 Hanno ragione: il regime non è caduto. La storia dei giorni in cui fuggì Ben Ali, tiranno vorace e coriaceo, devono ancora essere descritti. Ma loro hanno già capito che è stata una maligna commedia. Come spesso accade, una rivoluzione vera, giovane, con i suoi martiri e le sue strade in tumulto, è stata rubata e usata da una parte del regime. Sono quelli che vedevano la parte più grossa del bottino monopolizzata dalle ribalderie scervellate del clan dei Trabelsi, i parenti della moglie di Ben Ali, Leila. È stato il golpe dei visir, cresciuti e attempati nelle complicità con il dittatore, ma più guardinghi e astuti, gente che si è imposta al padrone nelle sale risalendo dalle cucine. Il risultato di questa tempestosa rapina è che una settimana dopo «la vittoria» vige e comanda ancora il sistema di potere fondato, campato e si credeva, ingenuamente, morto sulle ruberie; in testa il primo ministro Mohamed Ghannouci. La sua faccia, le sue bugie grottesche (venerdì in tv ha raccontato che anche lui «per vent’anni ha vissuto nella paura come tutti i tunisini») sono il presagio e, si può dire, l’intonazione del futuro del Paese. I nuovi padroni hanno così rapidamente preso l’abitudine di negare di essere stati «benalisti» che lo negano ormai a se medesimi.
 
 In queste arroganze è la speranza dei vinti. Ognuno dei manifestanti di ieri poteva ben testimoniarlo. Sono arrivati con ogni mezzo, un po’ marciando un po’ usando bus e camion, dal centro del Paese, Regueb, Menzel Bouzaiane, Sidi Bouzid, luoghi che parlano di miseria e di martiri, «dove la terra è dello Stato e noi non possediamo nulla». Come gridava Rokia, arrivato a Tunisi con le tre sorelle, tutte laureate come lui; e tutti senza lavoro e senza speranze. La spiccia sociologia di questa rivolta.
 
 Si sono diretti verso il palazzo del primo ministro, sull’altura che guarda la kasbah. Sul portone hanno affisso un cartello ingenuo: «Palazzo del popolo». Erano un migliaio all’inizio, irrobustiti a poco a poco da manifestanti della capitale, fino a divenire tre, quattromila. Non c’era, ieri, l’atmosfera distesa e festosa delle manifestazioni nella capitale negli ultimi giorni, con i poliziotti e i manifestanti che si abbracciano e sfilano insieme. Ieri la polizia aveva di nuovo l’aria truce, i modi duri: perché questo è un altro popolo, un’altra Tunisia, derelitta e rabbiosa, che grida: «Questa non è la vostra rivoluzione dei gelsomini, è la rivoluzione del sangue. Noi siamo qui per vendicarci». Gente che non si accontenterà di una rivoluzione predicata e minacciata senza mai farla, anzi per non farla. Tra loro c’erano, e la facevano già da padroni, gli uomini del partito radicale Ennahdha che annunciano il prossimo avvento islamista.
 

 Non li saziano certo le piccole scaglie del vecchio regime che i visir di Ben Ali concedono loro ogni giorno per dar l’impressione che si stanno saldando i conti con i colpevoli del passato. Le commissioni di inchiesta che lavoreranno anni. E ieri l’arresto del padrone della maggiore tv privata del Paese, e la più seguita, rete «Hannibal». Labhi Nasra era considerato il genio della tv, un ciclone di innovazioni che aveva scardinato gli ascolti puntando sullo sport e sui programmi popolari. Uomo di regime; il figlio, arrestato pure lui, ha sposato una ragazza del clan dei Trabelsi. Lo accusano di «alto tradimento», di aver diffuso nei giorni del golpe notizie false per favorire il rientro del dittatore e seminare il caos. La televisione ha immediatamente interrotto le trasmissioni.

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