Troppo magistero

Prego il lettore credente, o anche solamente devoto, di voler perdonare questa mia intromissione che però, a sua scusante, è intromissione di laico, non di superbioso laicista. E dunque, vediamo. Da qualche tempo, diciamo negli ultimi anni, il magistero della chiesa si è venuto diluendo, ma anche appesantendo, in documenti papali, prese di posizione eminenti, dichiarazioni ecclesiali, voci autorevoli (ma a volte persino supponenti), che si intrecciano nell’aria e si sovrappongono le une alle altre con l’obiettivo esplicito e mirato di convincere, ammonire, spronare - non in termini generali ma proprio lì su due piedi - il credente, anzi l’intera opinione pubblica. Queste direttive vertono su tutto, su ogni aspetto della vita umana, da quelli forse di pertinenza dell’antropologia a quelli relativi alla società e alla statualità. Non basta più che il fedele vada a messa la domenica, si confessi per le grandi ricorrenze religiose e faccia, in quelle occasioni, la comunione; deve adeguarsi, ora per ora, minuziosamente, ad istruzioni, avvertimenti, comandi, intesi come convergenti segnali di marcia per coinvolgerlo in modo stringente dall’inizio alla fine (naturale) della vita. A occhio e croce, temo si tratti di una particolarità tutta italiana.
Il laico, il profano, può dubitare della sua efficacia, ma il nuovo magistero non deve stupire. Rientra nella logica dei nostri tempi, ai quali in definitiva si adatta proprio mentre ne denuncia le tendenze negative. Oggigiorno, ogni aspetto della vita, nella sua più banale quotidianità, è per i più, per le “masse”, necessitante di regole che provengono, un po’ paracadutate, da ogni lato, incastrano in nevrotizzanti dilemmi ma vorrebbero anche obbligare a imperiose scelte. In larga misura, questa molteplicità di input spetta alla pubblicità, vangelo alternativo della contemporaneità. La pubblicità consiglia sugli acquisti ma, attraverso questi, incide sui valori. Il fenomeno ha ora anche un preciso risvolto in chiave religiosa: tutto ciò che riguarda la chiesa, l’istituzione e i suoi rappresentanti, assume un carattere mirifico, celestiale, tendente al meraviglioso come una lirica del Marino (“è del poeta il fin la meraviglia”) ed occupa la scena per immergerla totalmente nel sacro. Possiamo parlare - credo si possa ammetterlo - di una sorta di agiografia di stampo pubblicitario. In assenza di correttivi, a partire da quelli forniti da una informazione giornalistica attenta a mantenere credibilità e ruolo anche quando tratta di questioni delicate e, per così dire, extraterritoriali, il fenomeno si dilata incontrollato, in una dimensione eccessiva ma soprattutto grezza, mancante di un pizzico di ironia, insofferente e intollerante di obiezioni, aggressiva contro ogni manifestazione di fastidio e di rigetto. Si invoca sempre la civiltà dell’umanesimo, ma si ricade sempre nel più astratto dogmatismo.
Un tempo, le vere e grandi vicende etiche, la morale, ecc., discendevano, fluivano di padre in figlio, forse di madre in figlio. Era lo spessore di una tradizione radicata nel cuore della società. La tradizione si verificava quietamente, con la trasmissione di valori e comportamenti da una generazione all’altra. Oggi non è più così: avete fatto caso come le ragazze non sappiano, non dico stendere la sfoglia della pasta sulla spianatoia della nonna, ma cucinare un uovo al tegamino? Tutte ricorrono a ricettari che riescono solo a complicare e aggrovigliare le ricette, a proporre l’eccezione sfiziosa prima ancora che ad insegnare le regole di base. Ecco, mi pare in definitiva che il magistero ecclesiastico si sia adeguato a questo corso delle cose, sostituendo la tradizione con il battage dei messaggi più svariati, persino subliminali (e dunque infidi). Un tempo, il credente viveva integrato nella famiglia, nella comunità, gli bastava il sobrio, affettuoso, insegnamento del parroco. Oggi, la preghiera che ieri ogni battezzato sapeva pronunciare anche superando lo scoglio del latino ha bisogno di essere chiosata e parafata dall’intervento continuo delle autorità. E però poi - attenzione - la chiosa invoca a sua volta una sacra Tradizione (iniziale maiuscola, prego) chiamata a fare da sostegno e giustificazione alla chiosa. E’ il classico serpente che si morde la coda. Forse si tratta di un segno in/consapevole di incertezza ed inquietudine, di sfiducia nelle proprie capacità persuasive. Ma l’invocata Tradizione ha ormai, visibilmente, lo stesso impatto della nonna che stendeva la pasta, la nipote la guarda ma non sa cosa ricavare da quella familiare pratica. Il percorso formativo è interrotto e, temiamo, per sempre. Anche questo è un portato della globalizzazione dei linguaggi, un problema che richiede ben altri approcci, come si sforza di capire il laico facendosi forte, magari, del suo flessibile relativismo pedagogico.
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