Le troppe carte nascoste delle stragi italiane

Dalla Rassegna stampa

« La principale novità di questa decisione è che gli atti dell’intelligence diventano un patrimonio culturale del Paese», dice un funzionario dei servizi segreti che sta mettendo mano all’operazione trasparenza lanciata da Matteo Renzi. Una chiave di lettura meno eclatante ma più veritiera di tante altre che hanno accompagnato l’annuncio del presidente del Consiglio. Corretto in corsa l’iniziale slogan «via il segreto di Stato dalle stragi» si è giunti a una più congrua comunicazione di quanto deliberato: la desecretazione anticipata dei documenti relativi ad alcuni attentati dell’ultimo mezzo secolo. Fatto non certo insignificante, ma nemmeno così dirompente come si voleva far credere. La pubblicità delle attività documentate dei servizi di sicurezza e delle forze di polizia, se e quando avverrà, sarà benvenuta perché risponde a un criterio di controllo - sebbene a posteriori - la cui assenza ha favorito, in passato, il proliferare di omissioni, bugie e depistaggi oggettivamente accertati.

Ben più gravi del tanto vituperato segreto, che mai è stato opposto (salvo in un paio di situazioni superate da avvenimenti successivi) e dunque nessuno adesso potrebbe togliere. Se dunque la mossa di Renzi e del sottosegretario Minniti servisse a una migliore gestione delle decisioni e degli archivi da parte degli apparati di sicurezza, allora sì che sarebbe importante. Soprattutto per il futuro giacché per il passato, purtroppo, c’è poco da attendersi. I documenti riservati o segreti (e riservatissimi o segretissimi, secondo la tradizionale classificazione), infatti, sono stati per lo più già esaminati dai magistrati entrati più volte in quelle stanze blindate, e puntualmente trasfusi negli atti processuali. Sui quali hanno già lavorato molti studiosi e storici di professione. Inoltre gran parte di quelle carte sono state acquisite dalle commissioni parlamentari d’inchiesta - da Sindona a Moro, dalla P2 alle stragi -, e da qui girate alle biblioteche di Camera e Senato aperte alla pubblica consultazione (almeno in teoria, ché in pratica restano ostacoli burocratici che forse la firma del premier potrà adesso rimuovere).

Il «versamento» all’archivio di Stato, quindi, difficilmente ribalterà le conclusioni storiche, oltre che giudiziarie, raggiunte finora. Con risultati insoddisfacenti, certo, proprio a causa dei depistaggi che hanno ostacolato quasi tutte le inchieste sulle bombe. Con una regolarità sconcertante, da piazza Fontana a Bologna, tanto per stare nei confini temporali fissati dal decreto Renzi: processi senza colpevoli, tranne poche eccezioni, ma con provate omissioni e deviazioni delle indagini. Per la strage di piazza Fontana, ad esempio, la giustizia è arrivata fuori tempo massimo dichiarando la responsabilità dei due neofascisti Preda e Ventura, in precedenza definitivamente assolti; una vicenda giudiziaria irta di ostacoli tra cui la fuga di un paio d’inquisiti favorita dal generale del Sid Gian Adelio Maletti, tuttora latitante in Sud Africa.

E per piazza della Loggia a Brescia, di cui tra un mese sarà celebrato il quarantesimo anniversario, sopravvive un processo grazie ad alcune «veline» del servizio segreto militare in cui fin dall’estate del 1974 si delineava la responsabilità del gruppo veneto di Ordine Nuovo; documenti rigorosamente nascosti ai magistrati, scomparsi «per errore», non catalogati dove avrebbero dovuto essere e ritrovati casualmente undici anni dopo la bomba, da altri inquirenti, nel corso di un altro procedimento riguardante altri fatti. I vertici del Sid non solo li avevano occultati, ma quando uno dei capi andò a testimoniare indicò agli inquirenti una pista diversa, puntualmente falsa; era lo stesso generale Maletti, il quale nel 2009 s’è visto rifiutare un’improvvida domanda di grazia dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, con un atto che simbolicamente vale più delle annunciate desecretazioni.

L’esempio delle veline su Brescia è significativo della gestione di certe informazioni «riservate»: prima nascoste a chi di dovere e poi fatte sparire (in quel caso recuperate fortuitamente). Come ribadisce Manlio Milani, presidente dell’Associazione vittime di piazza della Loggia, «più del segreto di Stato il problema è il silenzio di Stato». Che difficilmente sarà rotto dall’apertura degli archivi, se chi li ha allestiti e conservati contemporaneamente depistava e occultava. In ogni caso guardarci dentro potrà essere utile; sia nell’eventualità di qualche sorpresa, sia per la poco consolante conferma dei sospetti accumulati in tanti anni di verità negate.

 

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