Tre risposte per Kabul

La presenza dei contingenti militari internazionali in Afghanistan è stata finora giustificata – tra mille differenze e contraddizioni – da obiettivi non solo di sicurezza internazionale e lotta al terrorismo, ma anche di affermazione dei diritti umani e lotta al fondamentalismo. L’ampiezza di tali compiti impone un minimo di rigore, affinché non divengano tanto generici da essere irrealizzabili e da legare la fine della missione all’ineluttabile esaurimento di quel minimo di consenso rimasto da parte dell’opinione pubblica, internazionale quanto afgana. È proprio su questa seconda opzione “di sfinimento” che contano le diverse forze destabilizzatrici. Senza confondersi con la posizione ideologica portata avanti da chi ritiene ogni intervento armato e presenza “occidentale” sempre e comunque espressione di imperialismo guerrafondaio, la realtà afgana dovrebbe indurci a condizionare il permanere delle truppe alla realizzazione di tre cambiamenti radicali di strategia, senza i quali l’intera missione ha scarsissime possibilità di evitare il fallimento.
La prima questione riguarda il principale fattore di destabilizzazione: la produzione e traffico di oppio per l’eroina. Negli scorsi anni, sia il parlamento italiano che il parlamento europeo, su iniziativa del partito radicale e di Emma Bonino, hanno proposto di usare l’oppio per la produzione legale di farmaci antidolore, dei quali è totalmente sprovvisto l’80 per cento dell’umanità. La guerra alla droga invece è continuata, sotto forma di guerra ai contadini e al popolo afgano. A trarne profitto non sono solo i talebani, perché l’enorme potere di corruzione del narcotraffico investe lo stesso governo afghano. Secondo un dossier pubblicato dal New York Times, persino il fratello del neo-confermato Karzai sarebbe legato ai signori della droga oltre a essere sul libro paga della Cia.
Il secondo fattore è quello del fondamentalismo, che nella nuova costituzione afgana ha fatto il suo ritorno ufficiale con il riconoscimento della sharia, compromettendo la solidità dei progressi pur ottenuti sul fronte dei diritti fondamentali, in particolare delle donne.
Una terza questione riguarda il fatto che alcune stragi di civili causate da errori commessi nei bombardamenti Nato sono rimaste senza conseguenze e attribuzioni di responsabilità.
La proposta avanzata da Marco Pannella di immediata autosospensione del vertice del contingente militare Nato avrebbe inviato al popolo afgano qauntomeno un segnale di attenzione e rispetto. Invece, nulla.
Aprire all’oppio legale, contrastare la sharia, dare risposte alle stragi di civili: i governi impegnati in Afghanistan – insieme alle forze politiche che li hanno fin qui responsabilmente sostenuti – non possono più permettersi di eludere questi punti. Proprio da parte di chi ritiene che l’affermazione della democrazia e dello stato di diritto siano obiettivi di rilevanza universale, e che l’uso della forza possa essere necessario in determinate situazioni, è il momento di condizionare la presenza militare all’abbandono di politiche dissennate che abbiamo contribuito a imporre agli afgani. Se invece ci limiteremo ad aggiustamenti di strategia militare privi di qualsiasi slancio e proposta politica, presto l’unica opzione diverrà quella di trovare il modo meno disonorevole di lasciare il paese a se stesso, cioè in mano a signori della droga e talebani.
E finirebbe per aver ragione chi chiede di farlo il più presto possibile.
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