La tragedia greca ora ha 3 morti

Ieri c’è scappato il morto. Anzi sono tre le incolpevoli vittime della furia che si è scatenata nella piazza greca. Vediamo in poche parole di dire ciò che sta avvenendo. La Grecia è fallita. Ha contratto debiti superiori alla ricchezza che produce in un anno. Ma il problema è che ogni mese deve rifinanziare questo enorme mutuo, non avendo i quattrini per farlo.
L’Europa, con qualche titubanza di troppo, le ha fatto un prestito a un tasso ridotto della metà rispetto a quello che oggi Atene spunta sul mercato. In cambio, ha preteso che il governo mettesse un po’ d’ordine nei suoi conti: un bel po’ di spese in meno e qualche entrata in più. E ieri un popolo di pazzi si è riversato sulle strade per dire che non ci stava. In queste ultime settimane ci siamo affannati a spiegare come la malattia greca potesse contagiare il resto dell’Europa.
Abbiamo analizzato per filo e per segno le medicine che si sarebbero dovute prescrivere e le reazioni più o meno competenti dei dottori al capezzale. Ciò che non abbiamo detto con chiarezza, è che i tre morti di ieri sono il vero motivo per i quali la Grecia è nel burrone.
Le tre incolpevoli vittime non sono l’effetto della crisi, ma la causa. La loro morte è la tragedia che si compie. Con una concezione un po’ distorta, se si vuole, della nozione spaziotempo e della relazione causa-effetto, si può semplicemente dire che la Grecia è fallita perché ieri le piazze si sono riempite di cretini e alcuni di loro sono degli assassini. Evidentemente è necessario spiegarsi meglio. Il fallimento di Atene è essenzialmente un fallimento politico. Il popolo dei giovani (molti dei quali manifestano da mesi nelle piazze greche), dei sindacati, dei lavoratori pubblici ha avuto negli ultimi dieci anni la pretesa che il proprio pasto fosse gratis. Ci possiamo girare intorno quanto vi pare, ma la banale situazione in cui si trova Atene è che deve spiegare improvvisamente che il film girato negli ultimi anni era falso. Dal 2002 al 2007, la ricchezza greca cresceva di quattro punti percentuali l’anno. Non sono accorse folle di turisti a vedere il Partenone, le isole erano frequentate come sempre, non c’erano fabbriche in più, l’olio era il solito da mille anni, eppure si cresceva come la Corea. Erano quattrini pubblici, per lo più presi a prestito da banche straniere, che drogavano il paese. Il giro del vapore lo vediamo oggi: 52 miliardi di debito greco è in mano alle banche francesi, 31 a quelle tedesche, la metà del totale è in area euro. Le banche di mezza europa, e dunque i loro azionisti, hanno finanziato le pensioni generose, un apparato pubblico da miliardari, il welfare da capogiro. Sulla sventatezza degli gnomi della finanza si potrebbe parlare a lungo, ma non è questa la sede.
Qui giova solo ricordare come i greci abbiano abbandonato con grande disinvoltura la feta per le aragoste, sapendo che il conto sarebbe stato pagato da altri. E oggi sfilano per le piazze e lanciano bombe molotov. Una micidiale cultura che per semplicità potremmo definire sindacale ha stabilito negli anni un ricco menù di diritti, senza pensare al conto dei doveri. E ieri, con rabbia, si è riversata in piazza, pretendendo che fosse loro servito il medesimo pasto. La cosa non è nuova. I fallimenti di uno Stato da secoli portano al tumulto di piazza. Ma qua la storia è diversa: il governo è intervenuto chirurgicamente per asportare il tumore, per tagliare i privilegi a chi li aveva.
In genere i governi agiscono in maniera più grossolana e politicamente più indolore: con l’inflazione e le svalutazioni della moneta, che da una parte colpiscono indifferentemente e ingiustamente tutti e dall’altra spostano il problema in avanti.
Costruire il benessere apparente di una collettività con la sola rivendicazione di un diritto porta alla tremenda piazza greca di ieri. La preoccupazione che l’Italia deve avere, più che al contagio, è proprio quella della tenuta sociale. Quanto siamo in grado di gestire il rigore? A che punto siamo arrivati con le nostre pretese? Quanti conti abbiamo lasciato insoluti?
In tanti oggi pensano che l’Italia sia a rischio. Ha un debito altissimo, pur avendo resistito, grazie a Giulio Tremonti, alle sirene della spesa allegra. Ma la nostra vera forza è che c’è una vasta parte del Paese che da anni combatte per la propria sopravvivenza economica e sociale. Ci sono imprenditori che lottano ogni giorno, e non da oggi, per battere la concorrenza, operai che si sentono collaboratori e non proletari, professionisti che studiano invece di pensare agli Albi. Sono decenni che una parte sana, sanissima, di questo Paese sa che nulla può attendersi dallo Stato. Se non qualche fastidio e qualche sopruso. C’è una parte consistente di questo Paese che il dovere lo esercita ogni mattina, quando si sveglia. Se qualcuno avesse voglia di celebrare l’Unità d’Italia senza retorica, ma come una collettività
che ha un idem sentire, si stringerebbe, oltre che all’elmo di Scipio, a questi signori che ci rendono immuni dal mortale contagio greco.
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