«Torture e propaganda» L'odissea del signor Oh nei lager nordcoreani

Oh Kil-nam ritrova ogni notte nel sonno le figlie lasciate 26 anni fa in un carcere della Corea del nord. Le rivede bambine, com'erano allora e come più non sono, se ancora sono in vita. «È un incubo che mi perseguita. Le scorgo in fondo a un buco nero da cui non possono tornare su. E io niente posso fare per aiutarle».
Invitato a Roma per un'audizione alla Camera sui diritti umani violati in Corea del Nord, Oh racconta la sua folle storia di sudcoreano recatosi volontariamente nella parte di Corea da cui chi può piuttosto scappa. Ma lui allora, alla metà degli anni ottanta, aveva sperimentato la dittatura militare al Sud e pur non avendo certezze sulla realtà che poteva trovare nel Paese di Kim Il-sung, coltivava l'illusione di contribuire con le sue doti di economista allo sviluppo e all'ammodernamento di quel regime, e a un progressivo disgelo fra le due metà della penisola sino alla riunificazione nazionale.
All'epoca Oh studiava e lavorava in Germania. Sapendolo favorevole al dialogo intercoreano, una spia di Pyongyang l'avvicinò e lo convinse a trasferirsi al Nord. «Mi fu prospettato un interessante ruolo di consulente nel governo. Garantirono cure mediche adeguate per mia moglie, malata di epatite». Così l'intera famiglia partì alla volta di Pyongyang.
Non ci mise molto a svegliarsi il sognatore Oh. «Mi bastò scendere dall'aereo e vedermi venire incontro tutti quei militari e funzionari. Ebbi subito la sensazione di essere caduto in trappola». Altro che dare suggerimenti a Kim Il-sung e compagni! Si ritrovò recluso in caserma a studiare il pensiero del capo supremo e la dottrina nazionalcomunista della Juche, dove «non c'è spazio nemmeno per il marxismo», rileva ironicamente Oh.
Dopo un prolungato lavaggio del cervello, ecco l'incarico importante: annunciatore radiofonico nei programmi di propaganda diretti a chi vive oltre il trentottesimo parallelo.
«Poiché collaboravo con il regime, stavo relativamente meglio rispetto al resto dei cittadini comuni. Ma ogni venerdì, quando venivo trasferito al cantiere per la settimanale corvée di lavoro chiamato volontario, di fatto obbligatorio, vedevo all'opera tanti altri forzati, in condizioni fisiche pessime». Per non parlare dei prigionieri politici, confinati in campi di concentramento, in condizioni di schiavitù, spesso sottoposti ad atroci torture. Oggi si calcola siano 150mila, addirittura 200mila secondo alcune stime, distribuiti in sei enormi lager. In uno dei quali, chiamato Yodok, languono dal 1986 Hae-won e Kyu-won, le figlie che Oh rivede nei suoi incubi notturni, assieme alla loro mamma Shin Suk-ja.
L'internamento fu la punizione per una colpa che non avevano commesso, la defezione del papà, la defezione del marito. Quell'anno Oh era stato rimandato in Germania con il compito di abbindolare altri progressisti sudcoreani inducendoli a seguire il suo esempio e rifugiarsi al Nord. Oh invece chiese asilo politico in Danimarca e non rimise più piede a Pyongyang. «Era stata mia moglie a proibirmi di tornare, se questo avesse significato ingannare altre persone e spingerle nello stesso inferno in cui eravamo finiti noi. Non voglio - mi aveva detto - che le nostre ragazze abbiano per padre un criminale». La povera donna sapeva perfettamente di restare in ostaggio con le bambine, esposta al rischio di rappresaglie.
L'ultimo ad aver incontrato la coraggiosa Shin Suk-ja con le sventurate Hae-won e Kyu-won nel campo di Yodok, si chiama Kim Tae-jin. Loro compagno di prigionia, scappò da Yodok nel 1997 e riuscì a oltrepassare il confine. C'era anche lui ieri a Roma per l'iniziativa promossa dagli onorevoli Matteo Mecacci (radicale) e Furio Colombo (Pd). Da allora Oh, che oggi vive a Seul, non ha più ricevuto notizie di prima mano sulla sorte delle tre donne. Oh non sa dire se il recente cambio di leadership a Pyongyang apra spiragli di miglioramento per il Paese. «Certo prima tutto faceva capo a Kim Jong-il. Con il figlio Jong-un pare che i centri di potere si siano moltiplicati. Da una parte forse nascono diversi canali di dialogo. Dall'altra gli sforzi fatti con l'aiuto dell'Onu e delle diplomazie tedesca e americana per salvare mia moglie e le mie figlie devono ricominciare da capo».
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