Torture e lavori forzati. Fuga dall'inferno eritreo

Dalla Rassegna stampa

Se prendete un taxi a pochi metri dalla Casa Bianca è molto probabile che l’autista sia somalo. Oppure eritreo. Persone scampate alla guerra, alla persecuzione, alla fame. Le tre piaghe del Corno d’Africa, rese ancora più dolorose dalla corruzione di governanti impresentabili. I profughi arrivati in America sono i più fortunati e, pur tra mille difficoltà, trovano un’altra vita. Ben diverso destino per quanti sono in trappola nel deserto nordafricano, nei campi della disperazione in Sudan, nella landa piena di predoni del Sinai. Che ci siano i somali sui miseri barconi affondati a Lampedusa non è una sorpresa. Il dramma del paese è storia antica. Fatta a pezzi da un conflitto civile mai terminato, non in grado di sfamare migliaia di essere umani, attraversata da spinte integraliste violente, la Somalia ha «prodotto» per oltre un decennio rifugiati.

Meno raccontata, invece, la diaspora eritrea. Spiegata da un dato: a partire dal 2000 oltre 250 mila persone sono scappate all’estero. Numero significativo su una popolazione di poco superiore ai 6 milioni. Gli eritrei lasciano l’ex colonia italiana per sottrarsi ad un sistema oppressivo, imposto dal partito unico guidato dal presidente Isaias Afewerki. Un uomo al potere dal 1993, anno dell’indipendenza dall’Etiopia. Le organizzazioni umanitarie hanno raccolto prove irrefutabili sue crimini del regime, la stampa imbavagliata, il voto libero negato. Il governo di Massaua procede all’arruolamento forzato di uomini e donne, un servizio militare che dura all’infinito e sottrae forze economiche. Chi cerca di sottrarsi o diserta è punito in modo feroce. Le autorità hanno moltiplicato gli arresti arbitrari, la detenzione di centinaia di essere umani colpevoli solo di dissentire. Molti sottoposti a torture brutali oppure condannati ai lavori forzati nelle miniere di Zara. Schiavi senza alcuna speranza di spezzare le loro catene. Il regime ha poi esteso le persecuzioni colpendo i musulmani, i testimoni di Geova, i gruppi pentecostali. Per frenare l’esodo ha introdotto il modello nordcoreano. Le guardie di frontiera sono autorizzate a «sparare per uccidere». Tattica adottata al confine con l’Etiopia e il Sudan, i due paesi attraverso i quali passano i corridoi dei fuggiaschi.

Incurante delle proteste internazionali, l’esercito ha trovato collaborazione con reparti sudanesi presenti nel settore di Kessela, snodo per chi si dirige verso il nord. Spesso i soldati del Sudan rimpatriano in modo forzato i profughi, in alcune occasioni permettono agli sgherri di Afewerki di agire nel proprio territorio. La tragedia dei ,migranti non si ferma in Sudan. E solo il primo passo della Via Crucis. La tribù araba Rashaida, con legami sui due lati della frontiera, «tratta» gli eritrei, collabora con i beduini al trasferimento verso Libia, Egitto e Israele. Ad ogni tappa privazioni, violenze, ricatti. Per questo sono disposti a salire sulle carrette del mare, anche se il viaggio può trasformarsi nell’ultima trappola.

 

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