I torti della giustizia e le ragioni di Pannella

Le condanne a morte «Tutte le condanne a morte sono odiose, e ciascuna lo è a modo suo». Si può partire da questa lineare affermazione di Adriano Sofri sulla prima pagina di Repubblica per sintetizzare il senso dei commenti di molti quotidiani sulla condanna all'impiccagione contro Tareq Aziz e altri esponenti del regime che fu.
E vanno citati anche l'apertura del Riformista - «Basta forca» nell'infinita vendetta irachena» - e il riferimento storico che chiude l'editoriale di Paolo Valentino sul Corriere della Sera: «Non è la presunta moderazione di Aziz un motivo in più per criticare la sentenza capitale. A morte non si condanna nessuno. Serve però a far risaltare l'accanimento vendicativo con cui l'attuale governo iracheno affronta il regolamento di conti con il passato.
Sul fondo le sue colpe restano incontestabili e imperdonabili. Invocare, come ha fatto Aziz durante il processo, il ruolo quasi tecnico del diplomatico, esecutore di ordini, mai coinvolto nelle azioni mortifere del raìs, è un espediente antico. Anche problematico a suo modo, come ha dimostrato nei giorni scorsi il rapporto degli storici, ordinato dall'allora ministro degli esteri tedesco, Joschka Fischer, sul ruolo svolto dai diplomatici dell'Auswaertiges Amt sotto Hitler.
Ci sono voluti oltre 60 anni di silenzi e sei di seria ricerca per stabilire che non furono servitori obbligati del regime, ma volenterosi carnefici del dittatore. Anche Aziz lo è stato. Per questo va fatta giustizia senza giustiziarlo». A questo punto si può riprendere la riflessione di Sofri sul quotidiano diretto da Ezio Mauro: «Una condanna capitale inflitta a più di sette anni dall'invasione dell'Iraq e dalla fine proclamata della guerra è brutale non come la vendetta, ma come la burocrazia. Discutere delle responsabilità personali di Tareq Aziz ha senso per chi voglia rifare la storia e anche per il tribunale che voglia esercitare la giustizia penale, ma solo fino alla soglia della condanna capitale.
Quest'ultima mette i vincitori dalla parte del torto e pregiudica il futuro della loro impresa. È stato vero per Saddam Hussein - platealmente, con f osceno spettacolo della sua esecuzione - e lo è per Aziz, che di quella tirannide rappresentava "il volto umano", cioè l'ipocrisia. Un' ipocrisia cui del resto buona parte dei poteri occidentali era felice di prestarsi, per convenienza d'affari e per il pregiudizio legato alla buona educazione anglosassone e alla fede cattolica».
Sciopero della fame.
La notizia della condanna, conclude Sofri, è arrivata in Italia negli stessi giorni in cui «Marco Pannella stava facendo uno sciopero della fame col duplice proposito di denunciare f intollerabile situazione carceraria italiana e di richiamare l'attenzione sull'opportunità mancata dell'esilio consensuale di Saddam e della sua corte, che avrebbe sventato l'intervento militare». Pannella ha visto nella condanna di Aziz, come in quella di Saddam, «oltre che lo scandalo della pena di morte, contro il quale i radicali si battono coi migliori titoli, il calcolo di mettere a tacere personalità che potrebbero testimoniare sulla disponibilità all'esilio con un salvacondotto e alla caduta della tirannide di Saddam senza ricorso alla guerra».
È un tema importante, così come quello della situazione carceraria in Italia. Rassegna sintetica di qualche titolo di prima pagina: «Pestaggi in cella, quanti casi Cucchi in carcere?» (Riformista); «Simone condannato come Cucchi» (il manifesto); «Non solo lodo Alfano: un nuovo caso Cucchi risveglia il Palazzo sul problema delle carceri» (il Foglio). E ancora il Fatto e, soprattutto, il Messaggero.
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