Tombe del Verano

Dovrei recarmi al Verano, il cimitero monumentale di Roma. Vi è sepolta le persona che mi è stata più cara in vita. Le ho portato qualche fiore a Natale, mi sembrò brutto che in quel giorno non sentisse vicino un po' di calore e di affetto, Era la prima visita che le facevo, mesi dopo la sua scomparsa. Andai di mattina presto, faceva freddo, i viali erano deserti, appena ho potuto sono scappato via, Non ho deposto un fiore, come sempre faccio, sulla tomba di Ernesto Buonaiuti o del pittore Antonello Trombadori, che aiutò mio padre, da giovane.
Da allora, non so decidermi a tornare laggiù. Un po' perché provo, al pensiero, tristezza e angoscia, ma un po' anche per l'antica, tenace convinzione che un laico non debba cedere, né tanto meno credere, ai riti che accompagnano e seguono la morte. Un mio amico dichiaratamente ateo, quando eravamo adolescenti, seppellì il padre quasi senza porre un segno di riconoscimento sulla fossa scavata in terra, di quelle che dopo dieci anni, a norma di regolamento, vengono svuotate dei miseri resti, gettati poi nel grande ossario comune, al centro del Verano.
Gli onori, le premure rivolte ad una salma sembravano al mio amico un non senso. Mi sono attenuto anch'io a quella credenza: cosa ti deve importare della inutile spoglia, che nulla ha più di chi fu vivente? Le sue memorie, il suo ricordo, o sono in te oppure è inutile che tu vada a riesumarle dinanzi ad una fredda lastra di marmo. Le onoranze, i riti per i defunti sono residui di una concezione della vita a sfondo religioso-miticochiesastico, cui un laico non dovrebbe concedere nulla.
Il Verano mi è familiare. Vi andavo sempre, il 2 novembre, assieme a mio padre e a mia madre. Mio padre vi aveva certi suoi parenti e una volta l'anno, per il due novembre, si sentiva obbligato a portare loro i tradizionali crisantemi. Entrati dall'ingresso monumentale, commentavano le tombe celebri o importanti. Era un rito familiare. Passavamo in mezzo a due ali di donne e uomini, membri di questa o quella congregazione religiosa dedicata al culto dei morti, vestiti di nero, seduti su una sedia di paglia, con in mano un sacchetto o un bussolotto d'ottone per le elemosine, che risuonavano. lugubremente tra le litanie recitate ad alta voce dai questuanti. Andavamo a buttare anche noi un fiore sulla tomba di Goffredo Mameli, in fondo a un vialetto trasversale. La statua giacente era ricoperta già da un enorme cumulo di foglie e petali multicolori ma rinsecchiti. Poi passavamo dinanzi alla lapide con scolpito il busto di un adolescente, famoso perché sul bavero della sua giacca c'era sempre un fiore fresco, che vi deponeva ogni giorno, da tempo immemorabile, una mano ignota.
Quel cimitero lo vidi anche devastato dalla furia del bombardamento del 19 luglio 1943. Quella mattina io ero lontano, a villa Borghese, con una ragazza. Alle prime bombe che sentimmo cadere sulla città corremmo a casa. Rassicurato sulla sorte dei miei, mi precipitai verso il quartiere di San Lorenzo, si vociferava che lì il bombardamento avesse infierito. Man mano che mi avvicinavo, la strada e i marciapiedi erano sempre più rivestiti uniformemente di una finissima polvere rossiccia. Vedevo i vetri delle finestre dell'Università sbriciolati, sul piazzale antistante il Verano i neri carri funebri erano schiacciati a terra con le ruote spaccate dal contraccolpo, qualcuno dei cavalli riverso, morto, il ventre già gonfio. Poi, l'adiacente basilica di San Lorenzo sfregiata, il porticato distrutto, le colonne a terra, spezzate. Dentro il cimitero, in un orrore indicibile, il quadriportico neoclassico in frammenti, le tombe delle congregazioni religiose, che ne occupano interamente il centro, aperte, sventrate, e le casse fuoriuscite, spappolate, teschi e ossa in vista.
Quel legame foscoliano
Se allontano quei ricordi tremendi, normalmente visitare un cimitero non mi dispiace, sul piano estetico. Amo i cimiteri inglesi, distese di prati con le lapidi sempre un po' pencolanti, alcune antichissime - grigiastre, con i caratteri "italics" e iscrizioni di gusto barocco. Visitai cimiteri ebraici nella Jugoslavia ancora multietnica, mi sono arrampicato con mia moglie sulla collina del cimitero islamico di Istanbul passando oltre cortei funebri con le salme fasciate di bianco; mi rifeci del triste spettacolo quando fui in cima, al caffè dove, pare, Pierre Loti si recava a fumare il narghilè e a scrivere. Ma se sul piano estetico i cimiteri mi attirano, sul piano etico la mia formazione culturale mi porta a respingerli.
Il laico non dovrebbe curare il culto, e forse nemmeno la reverenza affettuosa, la frequentazione delle tombe dei cari. "Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti" può essere il motto di questi laici. Ma, nel fondo, costoro sono laici o solamente laicisti, laicisti ideologizzati? Perché mai il laico non dovrebbe sentire quel legame foscoliano che lega il vivente con chi non c'è più, perché non dovrebbe anche lui, come l'ultima beghina, accudire quella pietra, onorarla con fiori, carezzarla pateticamente e inutilmente? È snobismo voler vivere sempre da stoici.
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