Il Tibet e l'arma della compassione

Dalla Rassegna stampa

Il Dalai Lama spiazza sempre le sue platee, che non siano quelle dei suoi seguaci, già in sintonia con il suo linguaggio e il suo modo di porsi. Le spiazza e le conquista. Perché non è un leader politico, anche se è il simbolo della causa del Tibet e guida il governo tibetano in esilio. Non parla come un politico, non si comporta come un politico. E non è neppure “semplicemente” un leader religioso. È una miniera vivente di saggezza che sa dispensare con saggezza e condividere con chi ascolta. Un messaggero di pace e spiritualità. Per questo i cinesi “impazziscono”, non sanno come misurarsi con lui: cercano testardamente di trattarlo come un cospiratore, di ridurlo a leader di un movimento separatista anti-cinese, manipolandone il messaggio limpidamente autonomista. Con l’unico effetto di accrescerne l’autorità morale e spirituale. E dunque anche politica. L’abbiamo visto ieri all’opera, a Montecitorio, dove Tenzin Gyatso, il tredicesimo Dalai Lama, invitato al Quinto congresso mondiale dei deputati per il Tibet, ha tratteggiato il suo ruolo attuale e ha parlato del futuro dopo la sua uscita di scena.
E ha risposto alle consuete domande dei giornalisti sulle relazioni con Pechino e sulle sue attese nei confronti di Barack Obama, chiudendo ogni dichiarazione con una risata contagiosa e con un che di autoironia. La frase chiave del suo ragionare è nella descrizione del metodo non violento nei riguardi della lotta del suo popolo: «Il nostro approccio alla questione tibetana è olistico. Cerchiamo di portare il governo cinese a sviluppare una società armonica che è sinonimo di stabilità e unità al contrario dell’approccio cinese basato sulla forza e sulle armi».
E un cinese, uno pseudogiornalista di quelli mandati in giro per fare propaganda per il regime, se l’è trovato di fronte ieri, nella sala del Mappapondo, mentre i parlamentari Matteo Mecacci e Gianni Vernetti, al suo fianco, cercavano di chiudere una lunga conferenza stampa densa di spunti di riflessione e di meditazione.
Al cinese che gli rimproverava di dipingere i suoi connazionali come ottusi creduloni, ha ribadito con calma che «la Cina fornisce sempre versioni distorte della realtà lasciando il suo popolo nell’ignoranza quando non nell’insofferenza nei nostri confronti», ricordando che egli appoggiò anche le Olimpiadi di Pechino e aiutò la scelta in tal senso del Comitato olimpico. E se l’interlocutore cinese parlava con stizza e aggressività, il tono e le parole di “Sua santità” erano improntate a quella pacatezza che è il frutto di lunghe meditazioni e di una “filosofia” che fornisce i cosiddetti “mezzi abili” per affrontare anche il conflitto, sempre nella visione “compassionevole” dell’interlocutore, fosse anche il tuo nemico.
È la stessa consapevole pacatezza che sfoggia quando parla di sé: «I tibetani hanno un enorme rispetto per me e confidano nella mia persona ed è per questo che non mi posso sottrarre al mio dovere di perorare la loro causa nel mondo.
Dopo la mia morte, ci sarà un momento di stallo fra i tibetani.
Ma la forza che contraddistingue il popolo tibetano, alimentata da secoli alla sorgente del buddismo tibetano, aiuteranno il mio popolo a superare quel momento».
Stessa lucida assennatezza quando definisce «di fondamentale importanza» mantenere «la tradizione del crocifisso nelle aule scolastiche» perché è importante «mantenere le proprie tradizione e l’Italia ha un retroterra cristiano».
Meritoria l’iniziativa di Mecacci e dei parlamentari presenti ieri (e oggi) a Montecitorio.
Meritorio il sostegno di Gianfranco Fini, che ha anche incontrato il leader tibetano. Il che, però, mette ancora più in luce la latitanza, ancora una volta, delle altre istituzioni (tranne il Campidoglio).
Il governo, a tutti i livelli, ha totalmente ignorato la sua presenza.
 

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