La terza Repubblica nasce zoppa

Dalla Rassegna stampa

Alle primarie di Genova in cui le due candidate del suo partito erano uscite battute da quello di Vendola, Pierluigi Bersani aveva reagito proponendo che il Pd negli appuntamenti successivi si presentasse con un solo candidato, e non più con diversi, per evitare di disperdere voti e concentrare nella competizione tutta la propria forza. Non si capisce quindi cosa lo abbia convinto ad affrontare poco dopo quelle di Palermo con tre candidati, andando incontro in poche settimane a una ben più grave seconda sconfitta.

Inutile cercare scuse, o dire che c'erano già impegni presi; proprio facendo tesoro di Genova, c'era sicuramente modo di rivederli. La verità è che anche stavolta Bersani non era in grado di imporre la sua opinione a un partito recalcitrante e diviso.

Le primarie infatti costituiscono ovunque una grande prova di democrazia e di apertura alla società. Ma non sono uguali dappertutto. In America, tanto per fare l'esempio più importante, sono primarie di partito. Se Obama, Hillary Clinton e Edwards nel 2008 avessero aperto a tutto il mondo della sinistra americana, il leader dei consumatori Ralph Nader avrebbe avuto la possibilità di giocare la sua partita, e perfino di vincerla: ma non è accaduto. Le primarie aperte, o di coalizione, o all'italiana, sono certamente più seducenti: votano i cittadini e non solo gli iscritti, tutti possono candidarsi, ma il risultato diventa imprevedibile, proprio com'è accaduto a Palermo e a Genova, e prima ancora a Milano, Napoli e Cagliari nel 2011. In tutti questi casi Bersani è sembrato uno che puntava un numero alla roulette, affidandosi alla sorte.

Se è andata così, tuttavia, la ragione è politica, perché il Pd non ha ancora deciso con chi governare, se in futuro gli si ripresenterà l'occasione ed evita finché può di fare una scelta. Alle ultime elezioni politiche del 2008 (ma allora era Veltroni a decidere) scelse come alleati Di Pietro e Pannella, lasciando fuori Vendola e gli altri partitini della sinistra radicale. Da novembre dell'anno scorso sostiene Monti in Parlamento insieme con Terzo polo e Pdl, ma mentre corteggia Casini, rifiuta, ricambiato, l'idea di un'alleanza politica con Berlusconi e Alfano. Intanto anche Di Pietro, dopo Vendola, è finito all'opposizione.

A questo punto, l'idea di tenere tutto insieme, da Casini a Vendola, non sta in piedi. Di accettare già adesso (dopo non si sa) la prospettiva di prolungare l'esperienza del governo a larga maggioranza, per Bersani non se ne parla. Ma neppure di sbilanciarsi sulla coalizione con cui puntare alla guida del Paese. Figurarsi, in questa situazione, come andrebbero a finire le eventuali primarie per il candidato premier del centrosinistra, seppure qualche mese fa il leader del Pd, almeno nei sondaggi, era indicato come possibile vincitore.

Da più parti si continua a sostenere che simili interrogativi tra poco non avranno più ragion d'essere perché la Seconda Repubblica e l'epoca bipolare in cui erano i cittadini a scegliere i governi nelle urne sta per finire. La Grande Riforma tante volte annunciata - e sulla quale però Pd, Pdl e Terzo polo avrebbero ormai raggiunto l'accordo - porterebbe un ritorno al sistema elettorale proporzionale. Nel nuovo (vecchio) assetto che si prepara, i partiti dovrebbero correre nuovamente ciascuno per conto suo, senza più dichiarare preventivamente le alleanze, e solo successivamente trattare in Parlamento per il governo. I governi, verrebbe da dire, pensando a quanti si facevano e disfacevano con tal metodo ai tempi della Prima Repubblica.

Ma anche ammesso che sia questa la prospettiva, per tornare alla partitocrazia servirebbero partiti un po' meglio in arnese. La vicenda del Pd in questo senso è simbolica, non solo dell'epilogo a cui è giunta in breve tempo la parabola della fusione delle due maggiori forze del centrosinistra, ma più in generale della crisi della forma partito nella democrazia italiana. Nato nel 2007 da una spinta convergente, del personale politico ex democristiano ed ex comunista in periferia, e degli ex giovani leader al centro, il partito è stato divorato dagli appetiti e dalle spartizioni locali, al punto che in Sicilia non correvano tre candidati del Pd, ma tre avversari di tre sottospecie dello stesso: ectoplasmi, mutazioni genetiche, mostri assemblati contro natura con trapianti di pezzi diversi. Costruiti esclusivamente per combattersi e uniti soltanto nel rifiutare qualsiasi indicazione politica nazionale, oggi di Bersani come ieri di Veltroni. Tal che la prima dichiarazione del vincitore di Palermo, Fabrizio Ferrandelli, è stata: «Di qui comincia la liberazione!».

Così la primavera di Genova e Palermo del Pd ricorda e in qualche modo ripercorre quella di Milano, Roma e Napoli del Pdl nel 2010, quando l'allora «partito del presidente», con Berlusconi al governo, grazie alle risse interne fu addirittura capace di non riuscire a presentare le liste nella capitale. Dove possa arrivare una Terza Repubblica che nasca su queste basi, è difficile dirlo. Ma bisognerebbe pensarci per tempo.

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