Teologia del cesso

Per Nietzsche, lo sappiamo, “se dio è morto, tutto è possibile”. Proprio vero, sembra dirci, con l’ingenua semplicità di un bambino, o di un folle, Marcel Duchamp. Conoscete Duchamp? E’ quello dell’orinatoio di porcellana firmato come un’opera d’arte (titolo: “Fountain”). Eravamo nel 1917, ma da qualche anno Duchamp produceva opere simili, poi etichettate come “readymade”, che hanno rivoluzionato l’arte: oggetti d’uso comune, frammenti di prodotti della tecnica - una ruota di bicicletta, una pala da neve - sciolti dalle loro funzioni e inseriti in un contesto nuovo, spiazzante. Queste opere ci dicono che davvero ormai tutto è possibile, che il mondo può essere letto da sinistra a destra ma anche da destra a sinistra, da sotto in su ma anche da sopra a sotto. Non c’è direzione prestabilita, obbligatoria, nell’interpretazione, e soprattutto nella costruzione del mondo: niente più regole da rispettare, comandamenti cui obbedire, sacralità da venerare. Il mondo è come ce lo facciamo noi. E come ce lo facciamo? Basterà dare all’oggetto il nome che vogliamo. Duchamp è, se volete, uno dei maggiori padri del nichilismo moderno. Però, quel che ha fatto e ci ha lasciato non è, dopotutto, negativo. Duchamp è proiettato in avanti, c’è in lui una forza che è propria dell’uomo, dell’umano, con quel tanto di spericolatezza che è propria dell’inventare.
Adesso su questo straordinario artista esce un’opera critica che non cesso di sfogliare, di consultare. E’ una raccolta di saggi curata da Stefano Chiodi (“Marcel Duchamp. Critica, biografia, mito”, Edizioni Electa, 286 pagg., 2009). Vi troverete scritti dell’artista, interviste, pagine di André Breton, Michel Leiris, John Cage, Denis de Rougemont, Jasper Johns, Alberto Boatto, Jean Clair, Achille Bonito Oliva ed altri, una biografia, una bibliografia e un indice delle opere. Di Duchamp si può dire - e questo libro ce ne espone le ragioni - che oggi il mondo viene costruito proprio sulle sue formule, e che noi ci viviamo dentro, artisti o gentarella, credenti o atei, nichilisti o clericali, e non potremmo più farne a meno. C’è chi si ostina e rema contro, opponendosi all’idea della assoluta libertà di creazione. Eppure, la creazione alla Duchamp è forse quella che più ci avvicina alla creazione opera di dio. Con una ovvia differenza: Dio estrae dal caos l’ordine delle cose, Duchamp rompe l’ordine delle cose e ritorna al caos, nella sublime speranza di poter, dalla cosa bruta, far nascere qualcosa di umano, di pensato, di pertinente alla fantasia. Che straordinario nichilismo, questo! Niente di tetro, niente di wagneriano, niente di distruttivo, di negativo, come nel filosofo di Zarathustra o in Heidegger. Duchamp aspira alla libertà dalla materia, dalla “cosa”, con la sua pesantezza ottusa. E che male c’è? Potrò sbagliare, ma la stessa aspirazione la trovo nell’abate Suger, il filosofo e architetto cristiano che strappando elementi i più disparati dalle architetture del suo tempo si inventò l’abbazia di Saint Denis a Parigi, incunabolo dell’arte gotica, che anch’essa si libera dalla grevità della materia, dalla compattezza delle murature romaniche e si slancia in alto giocando sul vuoto, sull’energia, sulle tensioni della forza di gravità, delle sue spinte e controspinte; o nel Borromini, nel suo gusto per l’illusione ottica, il trompe-l’oeil, l’assurdo; o, infine, in Gianlorenzo Bernini, che sconvolge l’ordine, la simmetria rinascimentale con le sue sensuali, immaginifiche volute, e nella statua di Apollo e Dafni mutata in albero di alloro evoca il mistero delle cose che tramutano una nell’altra, rendendo evanescente e imprendibile la realtà più massiccia.
Eppoi c’è l’ironia. Duchamp è un maestro di ironia. Non so se il dio creatore avesse questa qualità: dovrebbe, perché dio ha tutte le qualità umane al grado più alto, e l’ironia divina forse si manifesta nel fatto che il primo creatore si è divertito a far sorgere dal niente una quantità di forme, vegetali e animali, del tutto inutili, del tutto gratuite, proprio come Duchamp con le sue folli invenzioni e i suoi readymade, ma soprattutto con i suoi giochi di parole. In principio era il Verbo, era la Parola, recita la Bibbia. E Duchamp scopre che la parola è la più plastica, imprevedibile, mirabile delle invenzioni divine e/o umane: così dà alle sue opere titoli che sfidano la pesantezza della logica formale, giocano con l’equivoco, fanno del nonsense una struttura del pensare, un po’ come Alice nel paese delle meraviglie: “Rrose Sélavy”, “La marièe mise à nu par ses célibataires, mème…”, “In Advance of the Broken Arm”... Se dio ha fatto l’uomo a sua immagine, perché non accettare che anche Duchamp sia immagine del dio creatore, della sua ludica libertà, della sua infinita ironia? Duchamp non è un superuomo blasfemo, non ripete lo sconcio gesto del dantesco Vanni Fucci. E’ solo un laico.
© 2009 Radicali italiani. Tutti i diritti riservati
SU
- Login to post comments