Tassa su divorzi e separazioni discutibile ritorno allo stato etico

Tra le recenti misure per rimettere in sesto le sgangherate finanze italiane sembra che venga proposta una tassa sulle separazioni e i divorzi: si dovrebbero pagare 37 euro per le rotture consensuali e 87 per quelle litigiose, ed altrettanto per ogni modifica degli accordi sull'assegno di mantenimento. Non conosciamo chi sia il fantasioso consigliere ministeriale inventore della gabella che riproduce, sotto altre forme, la ben più ispirata tassa mussoliniana «sul celibato», a cui fece seguito «il premio sulla natalità» e quello «sulla nuzialità». Sospettiamo però che la tassa simil-fascista sia stata introdotta dalla stessa manina che ha voluto la legge sul testamento biologico divenuto diktat statal-clericale contro le decisioni di coscienza.
Consentiamo con la mano ferma del ministro Tremonti quando propone provvedimenti ragionevoli ed equi, necessari per ridurre il disavanzo dello Stato e riguadagnare sviluppo all'Italia. Ma ci stupiamo che nella finanziaria, dopo la scomparsa di significative misure quali la riduzione del finanziamento pubblico ai partiti e l'abolizione delle province, siano comparse tasse cervellotiche come quella sul divorzio e le separazioni che servono soltanto a infierire sugli sfortunati poveracci. Le cronache segnalano che fuori dalle porte della Caritas sta aumentando il numero dei padri divorziati che sono alla ricerca di un letto per dormire, dissanguati dagli assegni di mantenimento.
Si tratta, senza dubbio, di una «tassa etica» che denota la volontà di interferenza dello Stato nei rapporti tra le persone (il massimo del ridicolo è nella distinzione fiscale tra separazioni consensuali e non), sulla stessa strada autoritaria del testamento biologico attualmente in discussione, delle imposizioni sulla fecondazione assistita, e dell'opposizione alle coppie di fatto. Siamo pronti ai sacrifici necessari per tenere in piedi un'Italia risanata e forte, ma non siamo disposti ad assecondare la nascita dello Stato etico.
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