La svolta di Bertinotti: “Sono anche liberale e il Papa è un profeta”

«Dopo la sconfitta, abbiamo gli occhi più liberi per vedere quel che cresce nel campo dell’altro. Il pensiero liberale riesce a fare dell’individuo l’alfa e l’omega della misura del carattere democratico della società, mentre il capitalismo finanziario globale lavora all’annullamento dell’autonomia della persona». Ecco il nuovo Fausto Bertinotti: «A me tutto questo interessa, mentre un tempo lo consideravo come un elemento collaterale perché pensavo che l’eguaglianza stesse sopra. Resto comunista, ma vedo la nostra sconfitta storica».
È il tempo di mescolarsi con liberalismo e cattolicesimo politico?
«Sì, per ritornare sulla scena da protagonisti. Individuando ciò che è rimasto vivo nelle tre culture: nel marxismo l’eguaglianza, nel pensiero liberale il valore dei diritti individuali. Perché i Radicali fanno una battaglia di civiltà sulle carceri e noi no?».
Qualcuno dei tre pensieri ha perso meno degli altri?
«Forse la Chiesa ha perso di meno, è meno malconcia. Ha una leadership all’altezza della sfida. Il Pontefice pronuncia parole profetiche sulla guerra, capitalismo e immigrazione».
A proposito: il suo rapporto con la fede è cambiato?
«L’interesse per il cristianesimo è da sereno non credente».
E nel campo della sinistra c’è qualcuno che ha perso meno? Il Pd?
«C’è chi ha perso, noi. E chi ha subito una mutazione genetica: così, però, fai finta di perdere e corri in soccorso del vincitore. Non è che l’Urss ha perso e c’è una piccola Urss...».
Non c’è il Pd a riunire gli eredi di queste culture?
«L’incontro può avvenire sul terreno della critica al capitalismo. Il Pd fallisce perché pensa di accompagnare la rivoluzione capitalistica. E sceglie la cultura della governabilità».
A sinistra non le perdonano la crisi di Prodi. Le pesa?
«Il ‘98 non fu un errore: fummo preveggenti, si andava verso l’Europa di Maastricht. Mi rimprovero però una cosa, il nostro governo aveva una chance: c’era Jospin e agganciarlo sarebbe stato straordinario... Comunque, non me lo perdoneranno: sapevo di mordere nel corpo vivo della sinistra. Fu una vicenda dolorosissima, umanamente alcune rotture sono rimaste».
Prodi l’ha più sentito? E D’Alema?
«Con alcuni ho rapporti di amicizia, con altri no. Ma riguarda il privato».
La scena, in questa fase, è dominata da Renzi.
«È un grande surfista, il primo grande leader post moderno. Ma il renzismo è la piena accettazione di una sovranità di governo della Troika e della Bce».
Allora a che forza guarda chi, oggi, la pensa come lei?
«All’attesa della rivolta. Pacifica. Indignados, Occupy Wall Street, no-Tav, le primavere arabe… L’attesa è dei barbari senza barbarie: l’operaio di Secondigliano, il precario».
Questa visione la conduce all’astensione.
«Non è detto. Alle Europee ho votato Tsipras. Mi conduce a dire che il voto non è più la via maestra, non puoi aspettarti dal voto il cambiamento».
Intervistato dal direttore di Radio Radicale lei critica anche il sindacato.
«La concertazione è diventata la regola, i salari sono tra i più bassi d’Europa. La Fiom e alcune aree del sindacalismo extra confederale sono esperienze importanti, ma non cambiano la direzione di marcia dei confederali. E poi, perché gli 80 euro non sono stati conquistati dal sindacato? E perché non chiedere di estendere a tutti l’articolo 18?».
La provoco: è vero che da sindacalista non firmava contratti?
« Se mi chiedono in punto di morte, rispondo che sono stato un sindacalista. Ho passato una vita a firmare accordi. Anche brutti».
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