"Su Roma le mani di mafia e Casamonica"

Tre settimane. Anzi, poco meno. Poi urne aperte, liste dei candidati appese, l’ansia del risultato, l’incertezza del voto. È avanti Gianni Alemanno, no, Ignazio Marino ce la fa. Attenzione ad Alfio Marchini. E poi Marcello De Vito, chissà.
Bene, questa è la prospettiva ufficiale. Passiamo alla ufficiosa, per capire chi comanda realmente sul piano criminale. Lo abbiamo chiesto a un investigatore, attualmente impegnato nella sicurezza di una multinazionale. In questi ultimi decenni ha visto, vissuto, annusato, indagato. Svelato. Lui sa, sa talmente tanto da essere costretto all’anonimato. “Vogliamo partire da un’immagine?”. Perché no. “Poco tempo fa si è sposato uno dei rampolli Casamonica e la famiglia ha prenotato uno dei più lussuosi alberghi di Roma: 450 euro a invitato per cinquecento presenti. A lei la cifra finale”. Presto fatto: 225mila euro. Non male per chi, negli anni Settanta, si spacciava come giostraio. Diciamo che le origini sono ampiamente superate, nonostante abitino in periferia, la Romanina, dove ancora oggi i loro cavalli girano liberi tra i palazzi. “Vede, tutti sanno di loro, da decenni, eppure nessuno fa niente, se non alcune operazioni spot. Sono persone pericolosissime, impunite. Ma non le uniche”. E qui abbassa la voce.
Richiama la memoria, sembra far ordine. “A Fontana di Trevi abita il boss della mafia su Roma, viene da una famiglia di pescivendoli. Era l’uomo di Pippo Calò, nonostante i processi è ancora libero. Il nome? Lasci perdere, è meglio. Le dico solo che alla fine degli anni Ottanta gli hanno sequestrato sette ville in Costa Smeralda”. Cosa nostra. Ma non solo.
Nel 2007 l’ex deputata radicale, Rita Bernardini, disse: “Troppi ristoratori napoletani nel centro storico di Roma: c’è probabilmente l’ombra della camorra sulla Capitale”. Scandalo! Accuse di razzismo, precisazioni successive. Pragmatismo diplomatico. Eppure “non aveva tutti i torti. Penso alle catene di pizzerie. O ai negozi di abbigliamento: ce ne è uno in centro, poco lontano dal Parlamento, con prezzi ottimi. A gestirlo persone molto scortesi, di vendere non gli interessa nulla. Inoltre perché non va a controllare quanti esercizi aprono e chiudono in continuazione? Riciclaggio puro, incistato in una condizione economica difficile, dove è facile cadere in mano agli strozzini”. A Roma si chiamano “cravattari”, perché ti strozzano piano piano a colpi di tassi d’interesse. E chi all’ombra del Cupolone da sempre gestisce ingenti quantità di denaro, si chiama Enrico Nicoletti, oggi ultrasettantenne, un tempo legato ad alcuni membri della Banda della Magliana.
“E torniamo lì. Ancora lì. Quelli della Banda sono stati gli unici a pensare in grande. Ma attenzione: a differenza delle varie ricostruzioni romanzate, De Pedis, Giuseppucci e compagni non hanno mai pensato di vivere in proprio. Di costituire un nucleo a sé. Loro si alleavano a seconda delle occasioni, oggi con la mafia, domani con la camorra. Magari con i marsigliesi. Erano una sorta di braccio armato, dei pischelli affascinati dai grandi, rapiti dalla loro strategia criminale, rovinati nel momento in cui hanno deciso di entrare nella vita notturna della Capitale. Avevano bisogno di farsi vedere, di soppesare le loro conquiste, dare sfogo al lato bullo del carattere. Sono venuti allo scoperto e tutto si è ridimensionato. Altri tempi, come si dice in questi casi”. Stagioni criminali in cui i gruppi conoscevano alla perfezione il sistema fognario romano, tanto da colpire in un punto e uscire chilometri dopo. “Una volta sono spuntati di fronte alla sede del Messaggero, pieno centro. Arrestati. Alcuni di loro, per ispirarsi sui colpi, prendevano spunto da film gialli o romanzi polizieschi”. Oppure “c’erano dei criminali specializzati in sequestri. Il capo piazzava le vittime nei freezer per mantenerle intere e riconoscibili in foto". Nessuna guerra tra banda e banda, a ciascuno il proprio spazio. Sì, qualche scontro, ma niente di grosso. “Esattamente come oggi, anche se allora c’era maggiore possibilità di indagare, mentre queste ultime riforme del codice e la scomparsa della figura del giudice Istruttore, hanno reso tutto più complicato: mancano le figure di collegamento, la memoria storica. La capacità dell’uno più uno. Immediato. Tra gli anni Settanta e gli Ottanta gli investigatori erano soggetti a uno stress incredibile: anche un omicidio al giorno, e dovevano subito decifrare se era di matrice terroristica o criminale. Lo facevano, ci riuscivano. Oggi quanto ci è voluto per decifrare e capire chi erano i due criminali recentemente morti in altrettante rapine? Troppo, quando uno era un ex terrorista, l’altro si chiamava Angelo Angelotti, ex della Magliana”. La Banda, con la “b” maiuscola. E torniamo sempre, ancora lì.
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