Stop ai prodotti made in China scatta il boicottaggio della Regione

Dalla Rassegna stampa

Ora per coerenza i consiglieri regionali dovrebbero vendere iPhone e iPad, alcuni dei tanti giocattoli della vita quotidiana (molto diffusi alla Pisana) progettati negli Stati Uniti ma assemblati in Cina. Sì, perché ieri il piccolo consiglio regionale del Lazio ha deciso l'embargo contro tutto il «made» dal gigante cinese. Sperando che a Pechino non se ne accorgano e non decidano una ritorsione uguale e contraria. l'applicazione pignola della mozione approvata ieri non sarà semplice.

Impegna la Regione «ad attivarsi per far sospendere l'approvvigionamento di beni prodotti nella Repubblica Popolare Cinese, ovvero realizzati con materie prime provenienti dalla Cina. La sospensione dei prodotti cinesi si riferisce a tutti gli uffici regionali, alle agenzie regionali, agli enti pubblici dipendenti e alle società e altri enti privati a partecipazione regionale».

In pratica dai computer acquistati da un assessorato alle forniture di una Asl, dai telefonini di servizio all'appalto per le stampanti i dirigenti dovranno andare a verificare - se mai sarà applicata quotidianamente questa mozione - la provenienza. Bisognerà essere certi che quanto acquistato non sia stato prodotto a Shenzen, anche se magari ha un brand occidentale. Ma perché il consiglio regionale del Lazio decide di bloccare l'acquisto di prodotti cinesi? Tutto nasce da una mozione a sostegno della causa tibetana, in discussione ieri alla Pisana (ma altre simili sono state approvate in numerosi consigli regionali). Era stata presentata grazie all'iniziativa dei consiglieri Rocco Berardo (Lista Bonino Pannella) e Isabella Rauti (Pdl), presidente e vicepresidente dell'Intergruppo sul Tibet con la firma di trenta consiglieri di quasi tutti i gruppi politici.

La mozione chiede «che vengano attivate in tutte le sedi iniziative contro tutte le forme di violenza contro il popolo tibetano», invita ad «esortare il governo cinese ad avviare subito politiche di dialogo con le autorità civili e religiose tibetane che vivono in esilio» e a intervenire «affinché vengano fornite notizie sulla condizione dei monaci arrestati e portati via da alcuni monasteri e di altri che si sono dati fuoco in questi ultimi mesi per denunciare le gravi oppressioni subite». Il 10 marzo sarà esposta nella sede della Regione Lazio la bandiera del Tibet. Ha aggiunto Rocco Berardo: «Sempre sabato in occasione del cinquantatreesimo anniversario dell'insurrezione di Lhasa, è previsto un sit-in non violento davanti alla sede dell'Ambasciata cinese di Roma». Isabella Rauti: «La storia dell'occupazione del Tibet è metafora del paradosso tra ciò che la società contemporanea afferma e quello che tollera. Accetta il fatto che diritti umani vengono sanciti ma non sempre tutelati.

Nell'era della globalizzazione non possiamo accettare che proprio i diritti non vengano ovunque riconosciuti e rispettati; dovunque si violino i diritti, bisogna riaffermarli». Fin qui la mozione pro Tibet. Poi però, nel corso del dibattito, è arrivato un emendamento del consigliere regionale del Pdl, Pier Ernesto Irmici, che sancisce la dichiarazione di guerra commerciale della Regione Lazio contro la Cina. Che poi in gioco non c'è solo la causa tibetana, dicono alla Pisana. Osserva il presidente del Consiglio regionale, Mario Abbruzzese: «Con questa mozione difendiamo il made in Italy. Dunque, vuole rafforzare le imprese italiane e la produzione nel nostro Paese.

Quindi è un emendamento in favore dei nostri imprenditori». Ora si tratta solo di capire chi andrà a controllare, nel dettaglio, se tra le forniture della Regione, del consiglio, delle agenzie, c'è qualche prodotto assemblato in Cina. Non sarà semplice. Se mai questa mozione sarà applicata.

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