Stefano, il corpo che non si deve vedere

Si chiamava Stefano Cucchi, aveva 31 anni. Era stato accompagnato a casa dai carabinieri di Roma che lo avevano poi portato via ammanettato la notte tra il 15 e il 16 ottobre. Arrestato per il possesso di 20 grammi di sostanze stupefacenti è scomparso dalla vita civile per ricomparire morto una settimana dopo. Morto e trasformato: irriconoscibile, ha detto la sorella. Per sei giorni non è stato possibile vederlo. Lo hanno rivisto, morto, all´ospedale che porta il nome di un vecchio, umanissimo combattente per la libertà e i diritti umani, il presidente socialista Sandro Pertini. In quel luogo di cura Stefano era finito non si sa bene come, dopo essere stato condannato per direttissima.
La cronaca di quei sei giorni durante i quali è stato negato alla famiglia il permesso di vederlo è scritta sul suo corpo. Un corpo che ha subìto, dice l´avvocato della famiglia, «numerose e gravi offese». Lo mostrano le fotografie sconvolgenti distribuite dalla famiglia e pubblicate anche su Facebook. Quelle fotografie fanno riflettere sull´uso del corpo e delle immagini del corpo nelle nostre culture. Oggi nel mondo la frontiera del corpo e della sua visualizzazione divide culture e religioni. Siamo abituati, in Italia più che altrove, all´uso e al consumo di corpi femminili, luogo prioritario e antichissimo di esercizio del commercio e del potere.
Da noi più che altrove vige l´uso dei corpi femminili per vendere. E i corpi, femminili o maschili, sono merce che si vende e si compra. Il potere conquistato grazie alla visualizzazione del corpo ha un compenso: diventa utilizzatore di corpi. E il circuito si salda quando quei corpi utilizzati accedono a loro volta alla sfera magica dell´immagine, sono visti e fotografati, avviando così il loro percorso verso il successo. L´assioma che regge questo circuito è stato formulato in una frase del monopolista dell´informazione italiana: ciò che non passa in televisione non esiste. Non fosse che per questa frase il suo autore resterà quando la squallida cronaca dell´Italia contemporanea sarà diventata oggetto di storia.
Ma proviamo a rovesciare l´assioma: diciamo dunque che ciò che non si vede non esiste. È una regola che funziona, lo sappiamo bene. È per questo che nei tempi terribili della barbarie di massa gli addetti ai lager nazisti distruggevano scientificamente i corpi delle loro vittime. È per questo che allora l´appello del sopravvissuto Primo Levi a un´umanità distratta e ostile fu prima di tutto una implorazione, un invito a guardare, a vedere: guardate, vedete se questo è un uomo. Quell´appello poteva far leva su di un´immagine antica che era ancora nella memoria di molti: quella della Pietà, una parola che per secoli ha indicato un corpo – il corpo di Cristo - col nome del sentimento che lo strazio di quel corpo suscitava in chi vi rispecchiava la propria miseria e la propria speranza. Ma quell´appello segnò anche il momento di passaggio dall´epoca della pietà e del ricordo ai tempi nuovi della cancellazione dei corpi attraverso il semplicissimo mezzo della abolizione non della loro consistenza fisica ma della loro immagine.
Oggi la vista delle immagini del corpo di Stefano Cucchi obbliga a fermarsi, a prendere atto che quell´uomo è esistito e che lo hanno fatto morire con strazi degni delle esecuzioni pubbliche dei secoli pre-illuministi, oggi non scomparsi ma trasferiti nel chiuso delle piccole Guantanamo dei nostri paesi civili. Come, perché lo abbiano fatto morire sarà compito della giustizia dircelo: perché a questo punto la giustizia ha da esserci, non come la macchina burocratica che ha ammazzato chi per il potere non esisteva nemmeno prima di morire, ma come il luogo obbligato dove si dà risarcimento pubblico del diritto violato.
Un diritto antichissimo: non per niente la prima rivoluzionaria legge che tanti secoli fa impose regole all´arbitrio del potere di giudicare si chiamò «Habeas corpus». Il corpo, quello dell´ancora vivente Stefano Cucchi, doveva esserci, doveva essere lì, visibile, mentre si discuteva della sua sorte tra chi lo accusava e chi doveva difenderlo . E invece non è stato visibile nemmeno per i suoi mentre decideva su di lui una burocrazia poliziesca e giudiziaria tanto veloce nel suo caso quanto si mostra lenta, timida e cautelosa quando si tratta dei potenti.
Quel corpo non lo volevano far vedere, lo hanno sottratto alla vista per i sei giorni finali della sua vita. Hanno, sembra, impedito alla famiglia perfino di assistere all´autopsia che è per l´appunto la fase dell´esercizio obbligatorio della vista. Dunque una collettiva e volontaria visione di quel corpo non è solo un necessario atto di giustizia: è una rivendicazione della inviolabile dignità di ogni corpo, incluso il proprio.
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