Lo sputtanamento del riformismo

Dalla Rassegna stampa

Certe volte Silvio Berlusconi dà l’impressione di essere una gigantesca locomotiva in grado di distruggere qualsiasi cosa trovi sulla sua strada, ma lanciata in una corsa senza direzione. Oggi è uno di quei giorni, i giorni del «vorrei ma non posso».
È una sensazione sconcertante, soprattutto se riguarda un leader ritenuto pericoloso dai suoi avversari proprio perché troppo potente. Ma anche questo è il frutto di un sistema politico e istituzionale completamente paralizzato, in cui il dibattito è tanto concitato quanto inconcludente.
Delle tasse che non si possono più tagliare come tre giorni fa, parliamo in un altro articolo. Intendiamoci, è vero che non si possono tagliare con questi chiari di luna, perché c’è la crisi che però era appena stata dichiarata finita, e perché prima bisognerebbe tagliare il deficit e segare il tronco su cui cresce rigogliosa e improduttiva la spesa pubblica. Però fa comunque impressione che il conato di una politica riformista, abbozzata con grande pompa appena qualche ora fa, si sia strozzato in modo così repentino, lasciando di stucco anche gli avversari di sempre (l’unica volta che Repubblica e Di Pietro avevano creduto al premier!).
Ma ancor più sensazionale è l’indecisione con cui Berlusconi sta affrontando l’operazione-salvezza, quella che dovrebbe evitargli una condanna penale. Sono già sei i provvedimenti usciti dal cilindro: un processo breve, un secondo processo breve con maxi-emendamento, tre proposte di legittimo impedimento, e per ultimo il decreto bloccaprocessi con cui eravamo andati a letto martedì sera e che era già sparito all’alba di mercoledì (senza aggiungere il miraggio finale, il lodo Alfano costituzionalizzato).

Il perché di questo stato confusionale non è un mistero: quando si affronta un grande e vero problema democratico - i rapporti tra potere legislativo e potere giudiziario - con piccoli espedienti legali, la direzione politica scompare, e di conseguenza il cabotaggio si fa schizofrenico. Passa un avvocato ed è processo breve, ne passa un altro ed è blocca-processi. Della Grande Riforma della giustizia, annunciata fin dalla discesa in campo del ’94, neanche l’ombra: separazione delle carriere, riforma dell’obbligatorietà dell’azione penale, funzioni del Csm e - perché no? - una qualche forma di immunità anche solo temporanea per gli eletti del popolo. Un’agenda che avrebbe bisogno di pensiero, idee, dibattito pubblico, lavoro parlamentare bipartisan. Tutte cose troppo difficili e troppo complicate perché le possa fare un Ghedini, ma la cui assenza sta un po’ alla volta imbastardendo il berlusconismo anche nel giudizio di coloro che della repubblica dei pm sono stufi (basti guardare alla reazione degli avvocati al processo breve).
Dall’economia alla giustizia, questo cieco sbracciarsi fa ovviamente danni al paese e al suo spirito pubblico. Ma noi, per fatto personale, vorremmo segnalare anche un danno collaterale solo apparentemente minore: lo sputtanamento della parola «riforme». È questa una vecchia intuizione di Franco Debenedetti, che la rimproverava a Berlusconi. Perché se leggine d’accatto sono presentate come la riforma della giustizia, o regalini tributari come la riforma del fisco, alla riforma vera non ci crede più nessuno: chi la vorrebbe si scoraggia e chi non la vorrebbe esulta in difesa dello status quo. Col risultato che i riformisti veri, quelli che sarebbero pronti a rimboccarsi le maniche, finiscono nella terra di nessuno a prendere sassate da entrambe le parti.
Sarebbe paradossale se l’uomo che è sceso in politica per riformare l’Italia concludesse la sua vita politica senza aver riformato alcunché. Ma soprattutto sarebbe un disastro: perché chi verrà dopo, quelli che prevalebunt, delle riforme non parleranno nemmeno più.
 

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