Lo spartiacque americano

Uno spartiacque. Non solo per la società, per la cultura, per la politica statunitensi. Il “watershed” – come Adam Nagourney, firma di punta del New York Times, definisce il sostegno dichiarato da Barack Obama al matrimonio omosessuale – rappresenta un passaggio storico che interessa tutto il mondo occidentale, e non solo, ridefinendone i caratteri fondamentali. Uno spartiacque che costringe a prendere posizione tutte le forze politiche e gli intellettuali, che ancora non l’abbiano fatto, dell’Europa che crede nella libertà e nell’eguaglianza e su di esse fonda le sue istituzioni.
Non è stato facile per il presidente statunitense dire le cose che ha detto in piena campagna elettorale. E non sarà facile, altrove, fare altrettanto, per qualsiasi altro politico in posizione di leadership, talmente “divisive” è la questione del matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Da un lato, è, appunto, uno di quei temi che dividono l’elettorato. In America lo spacca a metà. Dall’altro, è un tema in rapidissima evoluzione, dal punto di vista del comune sentire prevalente: secondo l’autorevole istituto di ricerca Pew, nel 2001 il 57 per cento degli americani era contrario al samesex marriage, al matrimonio gay, il 35 era favorevole, mentre oggi il 47 per cento è a favore, il 43 contro. Se poi si scrutano con maggiore precisione i dati, si osserva che per le nuove generazioni – il futuro – il problema semplicemente non è più un problema, alla stregua di altri fattori di divisione che hanno segnato e lacerato il Novecento.
Inoltre, da una parte, è una riforma importante, ma al tempo stesso economicamente a costo zero, il che ha un suo rilievo in questi tempi di vacche magrissime; dall’altra, ha un costo politico potenzialmente elevato, è un rischio, ed è la ragione che spinge la gran parte dei progressisti, dappertutto, a eludere il problema e a rinviarne la soluzione indefinitivamente.
Obama, finora, è apparso paralizzato tra i due corni del problema. E anche questa impasse è diventato a sua volta parte del problema. Non c’è niente di più negativo dell’immagine di un dirigente che fa come l’asino di Buridano, scontentando la propria base e sicuramente non conquistando, con il non detto, l’elettorato ostile. I politici pensano spesso che la migliore scelta sia quella di non scegliere. Pure Obama - anche perché caratterialmente è un uomo di mediazione e perché si è proposto come il pacificatore dell’America lacerata - aveva finito per apparire così, il solito politico opportunista e calcolatore, custode dello status quo. Privo di coraggio. E quando si è reso conto che dirsi a favore delle unioni civili tra gay non bastava più, e che era una collocazione percepita, appunto, come una non scelta, sia dai fautori del same-sex marriage sia dagli oppositori, si è mosso, mandando avanti il suo cattolicissimo vice, Joe Biden, o, secondo altre versioni, subendone l’inopinata iniziativa (o meglio, in questo caso, decidendo di non correggerla o di prenderne le distanze). Sia come sia, questa mossa gli conferisce il carattere del politico coraggioso e audace. Gli restituisce quel temperamento di politico “nuovo” e diverso che tanto piacque alla base militante democratica e che sembrava smarrito nelle stanze del potere washingtoniano.
L’onda d’urto delle sue parole è stata notevole in America, con le più alte gerarchie della chiesa cattolica immediatamente in campo per deprecare il presidente. Anche altrove gli episcopati cattolici e tutte le confessioni religiose contrarie al matrimonio gay si mobiliteranno, ben sapendo che un orientamento del genere, dettato dal presidente degli Stati Uniti, “fa scuola”. Ben più di quanto sia potuto accadere da quando l’Olanda, nel 2001, approvò l’homohuwelijk, il matrimonio omosessuale, seguita dal Belgio, poi dall’Argentina, dal Sudafrica, dalla Svezia e via via da paesi con culture e storie diverse, compresa quella cattolica, come il Portogallo e la Spagna.
L’iniziativa obamiana avrà, per dire, ben altro peso rispetto a quella di Zapatero, che pure provocò un acceso dibattito in Spagna e in Europa, finendo per essere assunta come un modello da imitare o da demonizzare. Ieri, una militante lesbica francese, su uno dei blog della comunità, salutava entusiasta il passo compiuto da Obama, definendolo “le moment Zapatero”, anche per ricordare al neoeletto François Hollande uno degli impegni-chiave del suo programma (60 engagements pour la France), “l’engagement 31” a favore delle persone LGBT (lesbiche, gay, bisessuali, transgender), che prevede non solo l’apertura del matrimonio a tutte le coppie, ma anche l’homoparentalité, l’adozione aperta a tutte le coppie. Najat Belkacem, portavoce della campagna elettorale di Hollande, confidava al sito AuFéminin, poco prima del secondo turno delle presidenziali, che «il diritto al matrimonio e all’adozione per tutte le coppie sarà una realtà prima del giugno 2013». Dopo la dichiarazione di Obama, si ritiene a Parigi che non bisognerà aspettare un anno e che la questione sarà tra le prime all’ordine del giorno della prossima assemblea nazionale, se, come si prevede, sarà dominata da una maggioranza di sinistra.
C’è da chiedersi ora se il tema del samesex marriage diventerà centrale nello scontro presidenziale americano (e se, anche per questo, imporrà in qualche modo a tutti i leader progressisti di sostenere o meno il candidato democratico). Non è detto. Nel 2004, gli strateghi di George W. Bush misero l’opposizione ai matrimoni gay al centro della campagna elettorale repubblicana in alcuni stati in bilico decisivi, con l’idea che il tema sarebbe stato un forte fattore di mobilitazione per l’elettorato conservatore a sostegno del presidente-candidato. Oggi Mitt Romney reagisce con un netto no al matrimonio, ma resta aperto a forme di tutela dei diritti della coppie gay, anche perché fu questa la sua politica come governatore del Massachusetts. Se i media e i gruppi pro e contro il same-sex marriage hanno tutto l’interesse a tener vivo lo scontro sul tema, i due candidati non lo sembrano altrettanto. Anche perché i sondaggi, da un lato fotografano una polarizzazione dell’elettorato sulla issue, dall’altra continuano a porre in primo piano l’economia che continua ad annaspare e che resta l’assillo numero uno degli elettori. Romney non dovrebbe essere interessato a spostare la conversation dall’economia ai diritti dei gay. A Obama sì, forse potrebbe convenire cambiare argomento. Tuttavia, convenienze e calcoli del momento saranno minima cosa nei libri di storia che ricorderanno le parole “personali” pronunciate mercoledì scorso dal presidente democratico.
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