I sondaggisti campano di formaggini (non di politica)

Dalla Rassegna stampa

Fino all’ultimo secondo della campagna elettorale Alessandra Ghisleri, “la sondaggista di Berlusconi”, ripasserà a una a una le mappe delle 27 circoscrizioni della Camera e dei 20 collegi per il Senato. Il Cavaliere conta soprattutto su di lei per identificare e stanare, anche in extremis, indecisi, scettici, delusi. «Sì, tecnicamente è una brava», dicono a denti stretti gli esperti, ma con i numeri è troppo disinvolta, contrabbanda una realtà parziale per verità assoluta, un refolo per una tempesta, una leggera risalita (e questo sarebbe il caso del momento) per una rimonta travolgente. Alessandra Ghisleri, classe 1966, si è laureata in geologia alla Statale di Milano, ha incrociato la statistica quasi per caso, cominciando a collaborare con Datamedia di Luigi Crespi (prima dei suoi guai giudiziari). È lei l’erede di Gianni Pilo, il profeta degli esordi berlusconiani? Il protagonista di uno dei più spettacolari flop televisivi? Lo ricordiamo bene: erano le elezioni amministrative del 1995: Emilio Fede, istigato da Pilo, copriva la carta geografica d’Italia con le bandierine azzurre, salvo poi ritirarle mestamente man mano che arrivavano i risultati. Quelli veri. Alessandra Ghisleri accoglie il paragone con una risata: «Ma io faccio il mio mestiere. Sono pagata per questo. Lavoro per Berlusconi da tanti anni. Ascolto le sue richieste, conduco le indagini e poi presento a lui i risultati completi. Scriviamo report anche di 100 pagine. Dentro c’è il quadro completo della realtà, i movimenti di opinione in un senso e nell’altro. Le tendenze esaminate in modo dettagliato. Berlusconi è un uomo che studia i suoi potenziali elettori, vuole capire esattamente che cosa pensano, che cosa vogliono. Dopodiché è lui a decidere che cosa comunicare».
Nel 1936 uno sconosciuto professore della Northwestern University, un certo George Gallup, giunse a conclusioni esattamente opposte a quelle di Ghisleri, quando stupì l’opinione pubblica americana prevedendo la larga vittoria alle presidenziali di Franklin Delano Roosevelt, interpellando un campione di 50 mila elettori. Il sondaggio, predicava Gallup, deve essere uno strumento al servizio della democrazia, non dei singoli leader o candidati, e deve essere così perfetto da poter sostituire il referendum. Ma anche Gallup esagerava, come si vide nel 1948 quando il suo istituto bucò le previsioni alle presidenziali, dando per vincente Thomas Dewey anziché Harry Truman. Da quel momento la domanda di fondo resta imprigionata nella seguente contraddizione: quanto può essere davvero “scientifico” un sondaggio “politico”? Oppure: quanta distanza deve esserci tra l’istituto di ricerca e la committenza?
L’uso strumentale delle cifre. «Siamo di fronte a un’evoluzione scoraggiante. Tra i partiti prevale l’uso strumentale e propagandistico dei sondaggi, quando invece i numeri dovrebbero essere analizzati in modo direi quasi “privato”, per costruire le campagne di comunicazione», risponde Luigi Ferrari, 68 anni, uno degli specialisti italiani più quotati, fondatore e presidente di People, società che non si occupa di politica. «Noi sconsigliamo l’uso politico dei sondaggi, ma in Italia le cose non funzionano come negli Stati Uniti, in Germania, Francia o Gran Bretagna», aggiunge Nicola Piepoli, sondaggista di lungo corso.
In Italia non c’è e non potrebbe esserci una sola risposta: la “dittatura” della Doxa è finita da un pezzo. E il problema della contaminazione con la politica si mescola a quello del rapporto con il mercato o al confronto sui metodi di indagine. Negli ultimi anni le società si sono moltiplicate, come si può verificare consultando il sito della Presidenza del Consiglio in cui sono registrate le ultime rilevazioni diffuse da giornali, televisioni, radio, siti internet. Dal 20 giugno 2012 all’8 febbraio 2013 (ultimo giorno utile in vista delle elezioni di domenica 24 e lunedì 25 febbraio) sono state pubblicate 518 ricerche condotte da 30 società. Le più note fanno capo a personaggi ormai familiari al grande pubblico, come Nando Pagnoncelli, 53 anni, di Ipsos. I veterani sono Renato Mannheimer, 66 anni, e Piepoli, 78 anni. Curiosamente tutti e due dicono di aver scoperto il fascino della statistica a 12-13 anni. Piepoli rimase folgorato la sera in cui la Doxa, nell’aprile del 1948, previde la vittoria della Democrazia cristiana sul Partito comunista. Mannheimer, più pragmaticamente, cominciò a fare piccole inchieste adolescenziali per mettere a fuoco gusti e preferenze delle compagne di classe. Abbastanza simile anche il percorso. A Milano Mannheimer comincia come docente di metodologia e poi fonda Ispo nel 1980. Piepoli diventa assistente di statistica all’Università di Torino e poi, con la moglie Maria Elena Spada, costituisce la Cirm nel 1965 e nel 2002 l’Istituto Piepoli. Una storia che, per seguire ancora il racconto di Mannheimer, va dalle parole di Bettino Craxi («mi diceva: sono un vecchio socialista, per capire che cosa vuole la gente, mi basta sentire il mio autista») fino all’ossessione di Berlusconi, il politico-venditore. Oggi i sondaggisti sono tra i pochi personaggi pubblici che si fanno davvero concorrenza e che si occupano di politica senza arricchirsi. Non per filantropia, sia chiaro, ma semplicemente perché i soldi si fanno altrove, «con i formaggini e la nutella» precisa Piepoli. In Italia il mercato vale 500 milioni, in Europa 5 miliardi (con la Francia in testa) e nel mondo 18 miliardi (Stati Uniti leader, ma Cina in crescita tumultuosa). Ebbene da noi gli incassi fruttati dai sondaggi politici non superano i 5 milioni, un centesimo del totale europeo. L’Istituto Piepoli, per esempio, fattura 5 milioni all’anno e solo 500 mila, dichiara il titolare, arrivano dalla committenza interessata alla politica. Il resto sono aziende o istituzioni. Mannheimer dice di «non campare con la politica, che copre non più del 20% del fatturato di Ispo». Infine Ghisleri (Euromedia Research) riporta un fatturato di 1,5 milioni, di cui circa 300 mila totalizzati con le elezioni e dintorni. In generale, dicono gli esperti, una ricerca accettabile, cioè condotta su un campione di 1.500-2.000 intervistati, può costare tra i 5.000 e i 7.500 euro. I costi sono compressi, i compensi anche troppo: un intervistatore telefonico, in media, viene pagato tra i 10 e i 15 euro all’ora (mentre agli intervistati, naturalmente, non va un centesimo, neanche se reclutati in pianta stabile).
I veri clienti sono altrove. Le grandi multinazionali, come Nielsen o il gruppo Gfk (Eurisko in Italia), sono uscite dal settore. Tutti coloro che restano, con pochissime eccezioni, vi cercano un traino per attirare clienti commerciali disposti a pagare meglio dei giornali, delle tv e degli stessi partiti. All’inizio si può creare una specie di filiera che tiene insieme un’area politica, le istituzioni locali, le società pubbliche, come le aziende municipalizzate, che ne fanno parte. Poi, con il tempo, si cresce anche fuori dal recinto. È il modello seguito, per esempio, da Roberto Weber, ricercatore molto stimato, fondatore della Swg di Trieste nel 1981 e negli anni Novanta considerato vicino a Massimo D’Alema, all’epoca (1994-1998) segretario del Pds. Ma nel 2011 Swg aveva già sconfinato abbondantemente, lavorando, oltre che per il Pd, anche per la Lega Nord, per il raggruppamento di Fini e per aziende come la Mondadori, controllata dalla famiglia Berlusconi.
Meglio i telefoni o internet? Una traiettoria analoga è quella dell’emergente di questa campagna: Carlo Buttaroni, romano, 51 anni, fondatore di Tecné (2002), il fornitore di previsioni per Sky e altri. Da ragazzo si occupava della vigilanza di Botteghe Oscure, il quartier generale del Pci. Lavorava e studiava, fino a laurearsi in Scienze Politiche. Nel frattempo incrocia Stefano Draghi, “il mago rosso” dei numeri, professore di metodologia della ricerca sociale all’Università Statale di Milano, uno dei migliori (per molti il più bravo) in Italia. Alla sua scuola si è formata la parte più interessante dell’ultima generazione di ricercatori. Tra loro c’è anche Buttaroni. Ora l’allievo di Draghi solleva una questione di metodo, che è cruciale per “pesare” i sondaggi. In campo si confrontano due sistemi: le interviste realizzate con il telefono (spesso fisso) o via internet. «Il web può funzionare per le ricerche qualitative, cioè se devo raccogliere un giudizio su qualcosa che magari posso anche fare vedere. Ma per le preferenze politiche non va bene. Il campione deve essere scelto in modo rigorosamente casuale, mentre su internet risponde chi è stato già contattato in precedenza. Meglio i telefoni fissi o i cellulari allora». La disputa sul metodo può raccontare qualcosa anche sui risultati. Anche Mannheimer utilizza telefoni, rilevazioni online, oltre a interviste “vis à vis”. Swg si vanta di aver introdotto in Italia l’indagine via internet e, si legge nel sito ufficiale, «di aver costituito una community di oltre sessantamila persone». Ghisleri, per non sbagliare, adotta tutti i sistemi possibili: telefono fisso, e-mail, e anche social network. Vedremo lunedì 25 quanto tutto ciò sarà servito a Berlusconi.

 

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