La solitudine del Colle

Con un’improvvisa drammatizzazione del caso che da giorni ha lambito il Quirinale, ieri è stato il Presidente Napolitano in persona a prendere la parola sulla «trattativa» tra Stato e mafia, per spiegare che non ha nulla da nascondere né da temere.
Trovandosi alla festa della Guardia di Finanza, i giornalisti che avevano circondato il Capo dello Stato si aspettavano che volesse parlare di evasione fiscale, che era un po’ il tema del giorno. Il Presidente invece ha reagito duramente a quella che ha definito «una campagna di insinuazioni e sospetti di alcuni giornali» e alle paginate di verbali di intercettazioni telefoniche tra il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. Mancino è sotto inchiesta da parte della procura di Palermo con l’accusa di aver mentito sulla trattativa che nel 1993, all’ombra del Viminale, il generale dei Carabinieri Mario Mori, cioè l’uomo che pochi mesi prima aveva arrestato il capo dei capi di Cosa nostra Totò Riina, avrebbe intessuto con Vito Ciancimino, l’ex sindaco di Palermo mafioso e in affari con la grande mafia siciliana. Lo scambio tra un ammorbidimento del regime di carcere duro per i boss - che fu deciso dall’ex ministro di Giustizia Conso - e uno stop alla strategia stragista che aveva insanguinato l’Italia per due anni, da Capaci a Roma, Firenze e Milano, sarebbe stato, secondo l’inchiesta, il primo passo di un inconfessabile negoziato.
L’ex ministro dell’Interno si è sempre protestato innocente, e Napolitano entra nella vicenda perché è intervenuto, per tramite dei suoi collaboratori, a favore di un chiarimento tra le diverse procure siciliane, che hanno punti di vista differenti sull’inchiesta e sui suoi possibili imputati. Dopo un fallito approccio di D’Ambrosio con il capo della Superprocura Antimafia Piero Grasso, il 4 aprile il segretario generale della Presidenza Donato Marra ha scritto all’allora procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito. Per aver preso questa iniziativa - e per averlo fatto in piena trasparenza, tanto che ha reso noto il testo della lettera inviata ad Esposito -, Napolitano è da giorni sulla graticola. E pertanto ieri s’è deciso a reagire personalmente, ribadendo con orgoglio di essersi mosso nell’ambito delle proprie prerogative e nel pieno rispetto delle leggi.
Ma al di là del caso e dei molti conti aperti - non tutti chiari, e neppure tutti recenti, dato che la storia comincia quasi vent’anni fa c’è un aspetto del caso ancora del tutto inesplorato. E cioè che questa specie di impeachment mancato, con le reazioni o le mancate reazioni che ha provocato, è un esempio illuminante di cosa sta per diventare, o è già diventata, la politica in tempi di antipolitica. Sul campo, infatti, a muovere l’assedio al Quirinale, sono Grillo e Di Pietro, indipendentemente e per ragioni diverse. Per Grillo, uscito vincitore dalle ultime elezioni amministrative e accreditato di una crescita spropositata nei sondaggi, è la prima occasione per vendicarsi, dopo una campagna elettorale in cui, tra gli altri, aveva preso di mira anche il Colle, ricevendo in cambio dal Presidente il monito a non comportarsi da «demagogo». E quanto a Di Pietro, che con Napolitano ha sempre avuto pubblici cattivi rapporti, è una sorta di avvertimento inviato, via Colle, a Bersani e al Pd, che platealmente lo hanno appena scaricato, e si preparano, nelle prossime elezioni, a tenerlo fuori dalla coalizione, dopo quattro anni di turbolenta alleanza politica e un’amicizia che durava dai tempi di Mani pulite. Va da sé che se il centrosinistra facesse marcia indietro e riaccogliesse tra le sue file Italia dei Valori, anche Di Pietro potrebbe mutare atteggiamento. Ma se Bersani continua a fare l’offeso, il leader di Idv insisterà a tenere la mira puntata sul Quirinale.
E qui, prima di concludere, occorre guardare al comportamento degli altri partiti. Da Berlusconi, che tra l’altro è coinvolto nell’inchiesta palermitana ed è fin troppo impegnato a cercare di salvare se stesso dai suoi guai giudiziari, non c’era molto da aspettarsi. E quanto a Bersani o Casini, non è che non difendano il Presidente: ci mancherebbe. Ma lo fanno con una timidezza che tradisce il timore che le campagne dell’antipolitica abbiano ormai irrimediabilmente fatto breccia in un’opinione pubblica trattata alla stregua di una tifoseria da stadio. A questo siamo. Si vorrebbe non crederci, ma è così: poiché schierarsi con le istituzioni si sta rivelando elettoralmente e propagandisticamente poco conveniente, pur di non correre il rischio dell’impopolarità, Napolitano, in pratica, viene lasciato solo a difendersi.
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