I soldi sono finiti

Siamo alla frutta. Alla frutta, letteralmente. Come del resto tutti gli altri ortaggi, la frutta è divenuta costosissima, in un lievitare dei prezzi inarrestabile, quasi esponenziale, che gareggia con quello della benzina. Dovremo tornare a raccogliere la cicoria e le more nei campi? Se traducessimo in vecchie lire la spesa quotidiana fatta in euro ci accorgeremmo che stiamo sfiorando i tristi tempi della Repubblica di Weimar, quando i conti si facevano con i milioni e i trilioni di marchi: e c'è da sperare che non finiamo anche noi sotto un qualche Hitler, forse ci basta Monti a mettere in dubbio la democraticità istituzionale del paese. I negozi sono desolantemente vuoti, anche quelli che si sono trasformati in outlet ma forse sono solo suk che vendono di tutto, in un ultimo tentativo prima del fallimento e la chiusura. Un giornale romano titola "in centro, record di saracinesche abbassate", le cronache nazionali segnalano suicidi di commercianti e imprenditori che non ce la fanno più. Gli economisti hanno fatto fino a oggi tanti di quegli errori che nessuno ha più fiducia in loro, ci sono filosofi che possono esclamare che finalmente "l'arte di vivere è un esercizio di libertà", un "cammino interiore" di "responsabilità verso se stessi". Dove è più la tirannia delle merci, l'onnipotenza mercatista?
Comunque vada, e con l'auspicio di una qualche ripresa, prendiamone atto: è finita un'era, l'era del consumismo, dell'edonismo, del folle individualismo: si sente rintoccare il "rappel à l'ordre". I più ottimisti scrivono sulla "crisi del capitalismo", ma Giuseppe Bedeschi sostiene decisamente che siamo al "tramonto" dell'idea stessa di "progresso", l'idea fiorita con "Voltaire, Turgot, Condorcet" - autore dell'“Esquisse d'un tableau historique des progrès de l'esprit humain" (1793) - e poi divenuta il "fulcro" del pensiero di "tre giganti: Hegel, Comte e Marx". Per la verità, già da tempo non si contavano i moralisti, i pessimisti, gli apocalittici che ci avvertivano come l'occidente fosse in crisi di credibilità, con l'abbandono dell'essere a favore di uno spericolato Divenire senza volante, senza stella polare, senza verità, senza Dio. Meritavano più fiducia che gli economisti? Però oggi, inaspettatamente, quando ogni segnale sembra convergere per dare loro ragione, i moralisti tacciono. Forse avvertono che non è bello infierire, o forse temono di suscitare una irritazione che si sommerebbe, con esiti imprevedibili, al generale sconforto della gente. Comunque sia, l'economia ha fallito: è tutto un "torniamo alla politica".
I nuovi Faust
In mezzo a queste geremiadi, c'è chi continua a sfoggiare un ottimismo senza crepe, inattaccabile, marmoreo. E non si tratta di letterati fatui e sciolti da responsabilità, ma di scienziati affidabili. Per la verità, è da tempo che la scienza gareggia con l'economia nel garantire, con ineffabile sicumera, un radioso avvenire alla specie umana. L'astronomia come le tecnologie informatiche, la medicina e ogni ramo della chimica continuano a sfornare meraviglie sofisticate. Il loro cammino è inarrestabile. E si tende sempre più a sforare i confini tra scienza ed etica: bisogna affidare la società e la stessa umanità - pare ci dicano - alla scienza e non ci saranno più problemi. L'autorevole Edoardo Boncinelli scrive un articolo che gli viene redazionalmente titolato, con un pizzico di sicumera: "Scienza, sorgente della libertà". Citando Gilberto Corbellini, l'autore sostiene che "í paesi di più vecchia e solida democrazia sono anche quelli che più coltivano e tengono in considerazione scienza e spirito scientifico". L'asserzione ci pare quanto meno discutibile, un po' di attenzione avrebbe dovuto essere posta sui rischi che la scienza si trasformi - e stavolta non per spirito occidentale, faustiano - in scientismo, magari in salsa cinese. Ugualmente, sarebbe bene stare lontani, per scrupolo etico, dalle lapidarie affermazioni di altri autorevoli scienziati, per di più americani ("neo empiristi"?). Secondo gli studiosi della Long Now Foundation di San Francisco, che ha l'ambizione di scrutare il futuro più remoto, tra centomila anni la specie umana, l'"Homo sapiens", ci sarà ancora, non sarà affatto estinta. Richard Gott, astrofisico della Princeton University, stima che l'uomo sopravviverà ancora per circa sette milioni di anni. Sarà un po' diverso dall'attuale, ma lo studioso Graham Lawton sostiene che tutto sommato l'uomo "del 100 mila dopo Cristo continuerà a somigliarci", anche se forse saranno in circolazione "cyborg e robot fatti di silicio". A questi scienziati non sembra interessi quali idee passeranno per la testa di quel remotissimo nostro discendente, ma è probabile che qualcosa sarà cambiato: credibilmente, non nella direzione indicata da un vecchio, malinconico Benedetto Croce, quando annotava che "c'è in noi un Anticristo, distruttore del mondo, godente della distruzione". In ogni caso, come si vede, la scienza furoreggia, impunita. Ma, al contrario dell'economia, proclama: "Basta con la politica".
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