Il sistema elettorale spesso adisce chi lo riforma

Dalla Rassegna stampa

 

L'iniziativa promossa dai radicali e da un gruppo di studiosi e di personalità di centrosinistra e di centrodestra, a favore di un ritorno al collegio uninominale, ha il merito di riaprire la discussione su un tema, la riforma elettorale, nevralgico nel presente e nel futuro della transizione italiana. L'approdo - a poco più di un decennio dal referendum del 1993, che aveva aperto all'uninominale con l'83 per cento dei voti degli italiani e con l'introduzione del sistema misto previsto dal Mattarellum - all'attuale "Porcellum", definito "una porcata" dal suo stesso ideatore, il leghista Calderoli, non ha realizzato nessuno degli obiettivi che si era proposto: né il bipartitismo, che nelle attese dei promotori (ma anche, in un secondo momento, con Veltroni, degli oppositori) doveva sostituirsi all'incerto bipolarismo delle coalizioni iperlitigiose che avevano caratterizzato i primi anni della Seconda Repubblica. E neppure la stabilità, dal momento che delle due legislature iniziate con l'attuale sistema, una si è conclusa dopo soli due anni e l'altra rischia di finire allo stesso modo, dopo la rottura all'interno del Pdl tra Berlusconi e Fini.
Va detto che i due meccanismi sperimentati dal '94 a oggi, pur garantendo la piena alternanza tra due schieramenti, impensabile ai tempi della Prima Repubblica, sono basati su fondamenti opposti. Il Mattarellum uscito dalla stagione dei referendum elettorali aveva il 75 per cento dei seggi assegnati nei collegi uninominali, dove per prevalere era necessario che il candidato fosse sostenuto da una coalizione la più larga possibile, e solo il 25 per cento risultati da un voto proporzionale, che in pratica doveva servire a testare la forza dei singoli partiti per consentire di trattare su una base certa il peso e il numero di collegi sicuri da ottenere nella coalizione. Il Porcellum voluto dal centrodestra è invece basato su un voto proporzionale in cui la battaglia si trasferisce dalle due coalizioni ai due partiti maggiori, che si contendono il governo e il sostanzioso premio di maggioranza che spetta alla lista vincente (340 seggi alla Camera), e all'interno dei quali si inseriscono i partiti minori, rinunciando ai propri simboli o raggiungendo accordi elettorali che ne salvaguardano l'identità.
Questo sbocco - che affida la scelta dei candidati da eleggere direttamente ai capi-partito, visto che gli elettori votano su liste bloccate e non hanno diritto a preferenze - è diventato praticamente obbligato (ed è molto contestato perle conseguenze che ha prodotto su un Parlamento che non è più la diretta espressione delle scelte degli elettori) quando, per evitare il referendum che tendeva a limitare tutta la competizione in due sole liste, l'introduzione di uno sbarramento (del 4 per cento alla Camera e dell'8 al Senato) ha fatto sì appunto che ai due partiti maggiori si affiancassero delle minicoalizioni (la Lega per il Pd1 e Di Pietro e i radicali per il Pd), che hanno finito con il riprodurre gli stessi problemi dei precedenti larghi cartelli elettorali che caratterizzavano l'epoca del Mattarellum. Se ne ricava, quindi, che la malattia italiana dell'instabilità è incurabile e indipendente dalle tecniche elettorali introdotte via via per contrastarla? A giudicare da quanto è accaduto finora, è così. Con l'aggiunta che spesso il cambio di sistema ha realizzato obiettivi opposti a quelli che i promotori si erano proposti. Accadde nel '94, quando il Mattarellum uscito da una difficile mediazione interna al centrosinistra che sosteneva il governo Ciampi portò al governo per la prima volta il centrodestra di Berlusconi. E riaccadde, con un quadro capovolto, nel 2006, quando il Porcellum voluto dal centrodestra preparò la seconda vittoria di Prodi. Tutte e due le volte, è evidente, il risultato era sì determinato dall'introduzione di nuove regole elettorali, ma non solo e non in modo determinante.
Nel '94 a favore di Berlusconi giocava, oltre alla novità di un partito come Forza Italia, l'ondata di discredito che aveva investito dopo Tangentopoli i partiti tradizionali della Prima Repubblica. Nel 2006, contro lo stesso Cavaliere, pesavano gli esiti deludenti dei suoi primi cinque anni consecutivi di governo. E tra le ragioni che spingono oggi il presidente del Consiglio a frenare sull'ipotesi di elezioni anticipate c'è anche il timore che sul voto, magari con un rigurgito di astensione, possa pesare una nuova delusione degli elettori che solo due anni fa assegnarono al Pdl la più grossa maggioranza della storia della Repubblica italiana. Di qui a dire che i sistemi elettorali sono indifferenti rispetto ai destini della politica, tuttavia, ce ne corre. Altrimenti non si capirebbe perché, in Paesi diversi e più stabili del nostro, la leva elettorale sia stata usata con successo da leader che in questo modo sono riusciti a prolungare la loro stagione di governo: come Mitterrand, che eletto grazie al sistema uninominale maggioritario a due turni, lo modificò in senso proporzionale per allargare la sua maggioranza, senza curarsi di aver preparato così il successo della destra francese, che dopo di lui, sia pure con periodi di coabitazione con premier socialisti, ha sempre conquistato l'Eliseo.
E come la nuova coalizione tra conservatori e liberaldemocratici in Inghilterra, che di fronte a un'elezione in cui nessuno ha conquistato la maggioranza e dopo la quale Cameron e Clegg hanno dovuto dar vita alla loro inedita alleanza, si avvia a un referendum elettorale il prossimo 5 maggio per far decidere agli elettori se non sia il caso di pensionare il sistema uninominale "secco" inglese e il modello Westminster. In entrambi i casi è evidente che a spingere verso le riforme e a sceglierne i contenuti sono il realismo, la logica politica e la riflessione sulle prospettive. Ciò di cui spesso, troppo spesso ormai, si sente la mancanza in tante discussioni italiane di questi giorni.

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