Siria, ecco le colpe di noi occidentali

Era, ad Aleppo, una giornata molto limpida, di una chiarità tagliente. La città opponeva al suo martirio cieli angelici. Il morto, un ragazzo, non giaceva sul letto, era su una sedia. Era come se si fosse appoggiato per un attimo e mi attendesse. Nella stanza dell’ospedale di Tarik al Bab dove vivevo allora, il silenzio, che tale non era perché il sordo rumore della città lo rendeva così strano da farlo essere e non essere, diventò opprimente. Nel 2012 Aleppo viveva ancora. Fra le sue case straziate trovavi ancora piccoli mercati. Giravano ancora i gatti. Nel cielo volavano ancora gli uccelli. La vita umana continuava sconvolta, stravolta; ma continuava. i La pazienza di quella umanità aveva del tremendo. Erano tutti color macerie. Al male estremo opponevano la tenacia estrema. Ma non era un atto di volontà, era come il fluire fisico di un fiume. Spesso tornando nella mia stanza, la sera, avevo trovato il letto e il pavimento macchiati di sangue: ma un morto, così, mai. Pareva che il silenzio fosse rintanato nell’angolo buio sotto il letto e stesse aspettando che quel brusio vivo si decidesse ad ammutolire; e offrisse l’occasione al ragazzo ucciso di stendersi da quella posizione scomoda per morire realmente, e non essere abbattuto da una morte frettolosa, come una preda sanguinante. Per un istante credetti di udir cadere gocce di sangue sul pavimento. Ma non ci fu bisogno di assicurarsi che non poteva essere vero. Fu in quel momento che il dottor Yasser, responsabile dell’ospedale, entrò senza far rumore, ma io mi spaventai come se fosse un tuono: «Scusa, non hanno avuto il tempo di portarlo via... troppi feriti e moribondi... a decine... abbiamo amputato, operato, cucito, non c’è stato tempo».
Quell’ uomo era morto, un fatto inconcepibile come è inconcepibile perfino la morte di un coniglio, e non lo si capirà mai perché è troppo vicino alla morte nostra al punto di sfiorarla. Le vittime, allora, erano trentamila, il carnaio era agli inizi. Eppure Aleppo era già un luogo dove non esisteva più una violenza che non fosse inammissibile. Ero anche io trascinato, ogni giorno, entro una striscia di tenebre come un Oreste con gli urli lontani delle Menadi alle spalle. Ma era ancora la Siria della rivoluzione: uscivi nelle strade tra il fragore delle bombe e le urla dei combattenti che raggiungevano i quartieri della battaglia, ed era come l’abbraccio di mille amici anonimi. Si battevano, quei giovani eroi, ingenui e innocenti, sognavano, speravano che la loro Primavera fosse inevitabile. Uscivano dalla moschea battendo le mani e cantando: «Huríeh, Bashar, Urieh!» Libertà Bashar libertà. Il dottor Yasser mi guardava con lo sguardo timido di un animale che, scoperto, è pronto a lottare: «Voi occidentali non ci aiutate, preferite Bashar, ecco la verità. La Siria ribelle per voi è una seccatura, guardate dall’altra parte. Intanto si sta infiltrando qui mala gente, un tale al Arour è arrivato dall’Arabia Saudita pieno di soldi e finanzia i gruppi estremisti, islamisti. Noi abbiamo paura di costoro. Guarda i siriani, qui viviamo come in Europa, ci conosci, ci hai visto. La rivoluzione sono borghesi, avvocati, professori, studenti. Oggi non abbiamo tempo per soffrire, ci basta sopravvivere, ma domani?».
Io allora cercavo di negare, giuravo che le democrazie dell’Occidente sì, sono lente a capire, ma che tra un dittatore che bombarda il suo popolo e la rivoluzione non avrebbero esitato. Loro erano quello che noi amiamo, la giovinezza che si batte, che vuole cambiare il mondo e renderlo migliore, parole semplici ma gonfie di destino e di storia: la nostra. Nel puzzo calcinato di polvere bruciata e terra calcinata che si stendeva sul quartiere di Salaheddin come uno strato uniforme, divampava la battaglia, strane grida, ruggiti erompevano selvaggi, un lungo ululato penetrante come la sirena di una nave in avaria. A volte correnti d’aria trasportavano strani suoni modulati che sembravano quasi urla umane. Qua e là interi pezzi di palazzi si sollevavano e poi ricadevano. Improvvisamente arrivammo in una via che era rimasta intatta, non erano rotti nemmeno i vetri delle case e dei negozi. A un tratto mi prese una paura fredda e ignota, non era panico, non era ribellione né il grido urgente dell’esistenza o il desiderio di fuggire: era una paura lieve e fredda quasi impersonale che non consentiva un assalto poiché era invisibile, intoccabile e proveniva da un vuoto dove dovevano esserci pompe gigantesche che succhiavano il sangue delle vene e la vita dalle ossa. Il comandante Abu Majed che ci accompagnava con il mitra vigile verso i gusci vuoti delle case se ne accorse: «Ecco è successo anche a te, a noi accade ogni giorno, da due anni. La nostra vita è questo». Il padre lo avevano ucciso per punirlo della diserzione, non aveva più casa o luogo in cui fuggire, la rivoluzione era diventata il guscio della sua vita. E forse la vittoria gli faceva paura quasi quanto la sconfitta e la morte. Con la sua intelligenza sveglia e tesa avvertiva ogni indizio, anche il più velato, di conforto prima che fosse espresso e lo ripudiava.
Eppur-e, anche In lui, la speranza: «Voi preferite che gli arabi siano sotto le dittature, le dittature sono più malleabili. Abbiamo chiesto a Turchia e Giordania di venderci armi. Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia si sono opposte. Così i miei uomini devono contare i proiettili prima di sparare. Forse un giorno verrete davvero, come in Libia, a tenderci la mano. Il tempo è passato, tanto, troppo, eppure credo ancora che lo farete. Altrimenti che rimarrà di noi, i ribelli siriani, se non verrete? Niente altro che il ricordo nella mente di poche persone, dei genitori, se saranno ancora vivi, dei compagni di lotta, forse». Mi parve che fosse diventato leggero come un pezzo di carta e che un soffio di vento lo portasse via come un involucro vuoto. Che cosa sarebbe rimasto? Dove trovare un sostegno, dove poteva aggrapparsi perché non fosse portato via? Il vecchio Ibrahim, il contadino, lo incontrai alla periferia di Aleppo, intorno i campi tosati di luglio quando tutta la terra è gialla e i colli cretosi crepano aridi. Mi mostrò le foto dei suoi figli uccisi, quattro ne aveva in un tempo felice. Prendeva il mitra appeso al muro come un arnese e si avviava per i campi, a battersi. «Bisogna pagare e piangere per liberarsi di Bashar», diceva. Chissà se per Obama è un rivoluzionario «buono», se riuscirebbe a distinguerlo dagli altri, nel mirino dei droni?
Prodigiosi siriani che hanno pagato con una prodigalità di dolore e di sofferenza che altrove non si sogna neppure, per quattro anni. Eppure non era ancora tutto torbido, acre, funesto, allora. Sì la Siria della rivoluzione era un mondo duro dove le gioie sono scomparse, i sentimenti sono profondi e stabili, i pregiudizi radicati, gli odi e le passioni funeste: una vita alla quale occorre essere iniziati per capirla, esserci nati per amarla tanto è piena, come il luogo, di pietre e di spine. Eravamo saliti su una collina per vedere l’ennesimo bombardamento della città: gli incendi facevano corona alle ciminiere della periferia, i quartieri insorti, con una loro furia splendida. Gli edifici avevano assunto un colore livido di cadavere. Il fumo sempre più denso inaspriva, tra aliti ardenti che svampavano da ogni lato. «È il mio Paese che muore, è già cenere, a me non resta più nulla. Ma gli altri? I loro figli? Cosa lasciamo loro? Rovine, sangue, morti. La colpa è di Bashar e io lo maledico. Ma voi che guardate, inerti?».
Se fossi oggi ad Aleppo che cosa direi ai miei amici di un tempo, al dottor Yasser, a Ibrahim, al comandante? Ora che una rivoluzione agonizzante è morta: definitivamente. Gli ultimi battiti del suo cuore barbarico hanno rombato come campane di bronzo. Con l’annuncio di Obama che per annientare i fanatici del califfo di Mossul l’America colpirà anche i «ribelli siriani». Fragili, inutili i distinguo del presidente: «Non aiutiamo il despota». Sì: il dittatore siriano ha vinto. Ha giocato con cinismo le sue carte, ha fatto in modo che i suoi nemici diventassero i letali assassini islamisti, e ora incassa l’aiuto di quell’America che un anno fa voleva sbriciolarlo con le stesse bombe. Che cosa potrei dire ora ai miei amici siriani? Che loro avevano ragione e io torto, sì, li abbiamo traditi. Sentimenti ormai logori quelli dell’orrore, della pietà, suscitati da quella rivoluzione. Un altro sentimento li ha sommati ed elisi, ed era la noia. Quella tragedia siriana era noiosa. Ma non posso dir loro nulla: perché sono morti.
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